Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

martedì 26 ottobre 2010

Occasione di festa numero 38.

Superare se stessi è una delle regine delle occasioni di festa. Lo si può fare in tanti modi.
Io, per esempio, ho da sempre un problema: sono confusionaria e pasticciona. Lascio le cose in giro, accumulo, non so mettere ordine. Non che sia sporca, intendiamoci. Anzi: il dna materno qualche suo peso ce l'ha, e il mio minimo sindacale è già superiore a quello di molta gente (constatato sulla mia pelle, purtroppo).
Il fatto è che faccio proprio fatica, mi costa uno sforzo immane coordinare le forze fisiche e mentali per fare quelle robe lì.
L'altro giorno, però, vado in giro per casa e inizio ad aprire armadietti, ante, cassetti. Una cosa indegna. Oggetti buttati alla rinfusa, senza senno, sovrapposti gli uni agli altri, e - cosa peggiore - oggetti che neanche ricordavo di avere nascosti sotto cumuli informi. E che magari mi servono! Vi tralascio lo spettacolo pietoso di armadio e scarpiera. Gli mancava solo il dono della parola.
Mi son detta: Eccheccazzo (sic) Sara, così non si può.
E così, in preda a cinque favolosi minuti di energia, mi sono ripromessa di farcela: da sola, senza l'aiuto di nessuno.
Casetta, mi hai provocato. E io non vedo l'ora di accettare la sfida.
Il grosso è iniziare. Fisso il blocco cucina con aria concentrata, e apro il primo cassetto, quello grande. Per motivarmi metto su One shot 1991. Tiro fuori, sposto, pulisco, aspiro la polvere, vetril, smac, ah ti sistemo io maledetto cassettaccio. Dopo 20 sudatissimi minuti, guardo il risultato: sono quasi commossa. Allora il concetto di ordine c'è, esiste nella mia mente, a un livello molto profondo, subconscio, ma c'è. Non solo gli oggetti sono ordinati, ma si vedono, palesano per la prima volta la loro natura, mi guardano riconoscenti: grazie per averci ridato la dignità.
La mia autostima è a mille. Vado avanti. Nel giro di mezza giornata tutte le ante, i cassetti e persino la dispensa sono ricondotti all'onore del mondo.
Penso con emozione all'indomani in cui ti sistemerò, sgabuzzino intrigante.
Mi presento puntuale e parto all'attacco della scarpiera. Già aprirla è una sfida all'umano intelletto, nonché, soprattutto, agli umani sensi. Infatti: a) il profumatore d'ambienti non funziona più (maddai?!?) e b) sono forse scarpe, quelle?
La prima cosa da fare è tirarle fuori di lì. Poi prendo una bacinella piena di acqua calda, la riempio di sapone neutro, e armata di panno giallo mi dedico con abnegazione a infradito, sandali e soprattutto alle ballerine maledette, la specie più temuta. Ragazze so che sapete di cosa parlo. Basta un giorno senza calze e quelle ingrate restituiscono il peggiore odore che si possa immaginare, anche se vi lavate i piedini tutti i santi giorni e vi mettete la cremina al mentolo. Eh!
Qui avevo agito per tempo però: terminata la stagione estiva, le avevo prese e messe sul balcone a sfiatare. Non è stato risolutivo, ma quantomeno ha tamponato.
Insomma: una volta pulite e tornate a essere ciò che realmente sono, le ho prese, infilate negli appositi sacchettini di stoffa (ve li consiglio! Molto meno ingombranti di scatole e scatoline), riposte in una scatola grande di colore rosa che precedentemente conteneva le scarpe invernali, ho cambiato l'etichetta in scarpe estive et voilà! Nell'armadio, fuori dalle balle.
Le scarpe invernali, a loro volta, dopo aver rivisto la luce, sono state selezionate, pulite e sistemate nella scarpiera, dove ho appiccicato un fichissimo profumatore al muschio bianco - che cambierò un po' più spesso, onde evitare l'originarsi di altre fdv...
Il resto è storia: gli scaffali del ripostiglio sono stati sottoposti a un restyling totale, scatole che volavano dappertutto, io in bilico su una scaletta mefitica, polvere e quindi tosse tosse tosse ma una incredibile sensazione di libertà, un po' come le tecniche di visualizzazione yoga in cui ti liberi delle cose negative immaginandole sotto forma di un fumo nero che fuoriesce dal tuo corpo.
Ma questo è niente, dear friends: è stata già pianificata l'operazione Cambiodistagione che richiederà il concorso di tutte le mie facoltà fisiche e mentali. Ve ne renderò conto a tempo debito.
Dunque, tornando a noi: credete di non farcela? L'autostima scende a livelli infimi? Partite dalle piccole cose come queste, misuratevi con voi stessi. Disciplinatevi a cambiare prospettiva, a eliminare le cose (e i pensieri) inutili. E metteteci tanta tanta, tantissima ironia.
It's all about attitude.

lunedì 25 ottobre 2010

Occasione di festa numero 37.

Oggi a Torino è una giornata uggiosa e fredda. Piove da ieri sera e le cime delle montagne più alte sono già tutte imbiancate. Mi sono affacciata alla finestra e mi sono messa a osservare gli alberi di fronte a casa mia. Già il fatto che casa mia sia circondata da alberi è una gran occasione di festa. Ma soprattutto a me gli alberi emozionano. Meglio ancora: stupiscono.
Perché loro stanno lì, e ci insegnano la vita senza parole. Così, semplicemente esistendo.
Per esempio con l'autunno sanno di doversi mettere a riposo, e lasciano cadere le loro foglie per farle rinascere più belle dopo sei mesi. Lo fanno con stile, abbinando i colori come neanche Christian Dior. Riescono a rendere piacevole e sopportabile anche la più malinconica delle stagioni. Io, foglia, sto per cadere, ma tu guardami per l'ultima volta: sono meravigliosa. L'inspiegabile fascino della decadenza, del trapasso, della trasformazione è lì davanti ai nostri occhi, e si disvela con disarmante semplicità.
D'inverno si addormentano, e rimangono lì, come pilastri monumentali, sprezzanti del gelo e di ogni altra brutta cosa gli arrivi addosso. Concreti nelle radici, granitici nel fusto, leggeri e apparentemente fragili nei rami appaiono per ciò che sono, nudi e al contempo forti. Provocatori, persino: se arriva la neve, o il gelo, o la brina, colgono l'occasione per farsi nuovamente vanitosi e si prestano a insuperabili macramé e tessiture elegantissime.
La primavera li vede riaprire timidamente gli occhi, costellandoli di germogli carichi di promesse. Che manterranno oltre ogni aspettativa. Sono talmente intelligenti, loro, da fiorire a turno, così che chi li guarda rimanga sempre soddisfatto: apre le danze la Forsithia in marzo, col suo giallo sgargiante, e chiude in bellezza ad agosto la Bignonia color arancio, ultimo spettacolo prima dell'autunno. In mezzo ci sono tutti i colori che possiamo immaginare, in mille sfumature, accompagnati da profumi meravigliosi. E' qui che ciascun albero realizza il suo potenziale, ricordandoci altresì che tutto passa per non rimanere, ma per tornare, forse ancor più bello.
Ogni albero è un miracolo proprio per questi motivi: resiste a tutto e cresce anche dove non ce lo aspetteremmo; rivendica il suo diritto a esistere nonostante le brutture umane, o forse proprio in virtù di queste, per imporre la sua semplice, e vincente, moralità; sa restituire molto più di quel che riceve; è capace di tolleranza infinita, non si turba né per gli elogi né per i biasimi; e ci insegna la vera bellezza, senza artifici né finzioni.
Quello che molti stentano a capire è che tra noi, lui e tutto ciò che ci circonda non esiste confine. Abbracciare un albero - se mai vi è capitato - non è un gesto semplicisticamente romantico.
E' una esperienza di fusione che sa restituirci alla nostra vera e più profonda natura, quella di esseri viventi, che sempre più spesso ignoriamo con disprezzo e ingiustificato senso di superiorità.
E' da qui che dobbiamo ripartire.

giovedì 21 ottobre 2010

Occasione di festa numero 36.

Il vintage va come il pane e allora io mi ci butto a capofitto cari amici.
Vi ricordate di quando vi ho parlato di ricordi? Ricordi sgradevoli, con cui fare la pace (uno per volta però, per carità), ma anche ricordi belli, caldi e accoglienti come una copertina di cachemire (che io immagino color crema, chissà perché)?
Oggi voglio immergermi completamente in questo mood e sentirmi di nuovo bimba, quella malinconica figlia unica con gli occhi grandi come la sua cameretta, che le sembrava il confine dell'universo. A quella bimba dalle guance (già) paffute piaceva un sacco ascoltare la musica, e ne ascoltava tanta, addirittura sui dischi di vinile (ah, che collezione quella del papà!).
Però, chissà perché, più imparava ad apprezzare la musica bella, quella dei Pink Floyd, dei Beatles, di Stevie Wonder, di Madonna, più veniva irresistibilmente attratta dallo scafazzo musicale.
Prima ancora che si parlasse di One Shot, di meteore, non c'era nulla da fare: un Maniac di qua, un A caus' des garçons di là, quel favoloso 45 giri di Alberto Camerini Rock'n'roll Robot, Disco Bambina o Ballo Ballo avevano su di me poteri quasi taumaturgici.
La cosa meravigliosa è che ce li hanno ancora, e, riascoltandoli ora, è come vedere i Robinson (vd. Occasione di festa numero 35): rilassano la muscolatura.
Non solo: mi fanno sognare.
Perché, cara realtà che tanto mi fai arrabbiare ma che devo affrontare, non te la prenderai se ogni tanto mi avvolgo quella copertina attorno alle spalle e mi metto a canticchiare: A caus des garçons on met des bas nylon, on se crepe le chignon!

giovedì 14 ottobre 2010

Occasione di festa numero 35.

Quando sono a casa pranzo spesso da sola, così prendo il mio triste piatto e mi piazzo davanti al televisore. In realtà prima non lo facevo: mettevo su un po' di musica o restavo in silenzio (dopo quattro ore consecutive di telefono mi sembra doveroso).
Invece ho scoperto che, proprio all'ora in cui pranzo io, un canale digitale denominato K2, di cui ho ignorato l'esistenza fino a quel momento, trasmetteva uno dei miei telefilm preferiti: i Robinson.
Occasione di festa ghiottissima.
Anzi, tripla occasione di festa, perché quotidianamente K2 trasmette ben 3 dico 3 episodi, partendo dalla prima puntata della prima serie.
Che gran telefilm. Non al livello de i Jefferson, o di Saranno Famosi, che per me restano vette inavvicinabili. Però i Robinson sortiscono un effetto diverso: mi rasserenano.
Che bello questo mondo così corretto, perbene, senza sforzo, senza conflitti, dove si ride un sacco, si è tutti belli, si è tutti felicemente sistemati... aaaah, che sospiro di sollievo.

Ragazzi non sto scherzando, io già quando sento quella colonna sonora un po' jazzy sento i battiti cardiaci decelerare, mi si rilassano le articolazioni, mi sento al calduccio, in un posto dove non può succedermi nulla di male.
Poi c'è da dire che si ride parecchio, che gli attori sono bravissimi, che la sceneggiatura è ottima.
Certo, a volte l'atmosfera è troppo zuccherosa e inverosimile, ma ce ne importa qualcosa? Non è certo la vita vera. E allora perché non possiamo sognare che il mondo e la realtà possano anche essere così, alla portata di tutti. Ecco, questo telefilm a volte mi fa sentire parte del tutto, come quel giorno in cui ho visto il tramonto su Stromboli oppure ho fatto la salita al cratere di Vulcano.
Una strategia di sopravvivenza come un'altra.

martedì 12 ottobre 2010

Occasione di festa numero 34.

Non so voi, ma per me andare al cinema è una occasione di festa grossa così. In questo periodo, poi. L'autunno, che a me fa un po' involvere e venir voglia di tornare in posizione fetale a fare tanta, tanta nanna, è il complice ideale per questo sano modo di passare il tempo libero.
Così, un po' di giorni fa, con dei cari amici siamo andati a vedere Somewhere di Sofia Coppola, Leone d'Oro all'ultima mostra del cinema di Venezia.
Recensioni, prima, non ne ho lette, anche perché non mi piace essere influenzata quando guardo un film (molti invece si fanno fregare, da certe recensioni. Confessate!). Neanche il premio mi aveva influenzata. Ero semplicemente incuriosita dalla nuova opera di una regista che, a me personalmente, piace molto.
L'inizio di Somewhere è spiazzante. Snervante, a un primo impatto. In realtà dopo aver visto tutto il film vi renderete conto che non poteva esserci inizio diverso.
Un luogo desertico. Imprecisato. Una Ferrari nera che gira in tondo. Un uomo solo che scende e si guarda intorno. Boh?
Quell'uomo solo, dall'espressione spaurita/attonita/annoiata, scopriamo poi essere tale Johnny Marco, attore hollywoodiano famosissimo e ricchissimo. Vive in un albergo frequentato da modelle e celebrities (per dire: va in ascensore e incontra Benicio Del Toro. Dico, Benicio Del Toro), nella sua stanza organizzano feste superglamorous a sua insaputa, e soprattutto non ha problemi a portarsi a letto donne che qualunque maschio eterosessuale si sognerebbe la notte.
Lui, invece, sbadiglia. Si addormenta con la faccia sprofondata in mezzo alle gambe di una biondona proprio sul più bello. Guarda due spogliarelliste gemelle che si esibiscono davanti al suo letto di convalescenza (si è rotto un braccio) e che fa? Sorride intenerito, quasi imbarazzato.
Non c'è colonna sonora, qualche canzone qua e là.
C'è però la bislacca quotidianità di un uomo solo che è sempre fuori posto, ovunque si trovi. Somewhere, appunto.
Poi arriva lei, Cleo. Cleo è sua figlia. Di solito sta con la madre, che però non sta più con Johnny Marco. Ma la mamma ha deciso di starsene via per un po', non si sa per quanto. E Cleo, per un periodo imprecisato, dovrà stare con suo padre.
Ora, questa ragazzina, che avrà sui tredici, quattordici anni, ha una caratteristica fantastica: è luminosa. E' pura, solare, indossa bei vestiti colorati, è rilassata ed è felice di stare col padre, di condividere con lui momenti di quotidianità fuori dell'ordinario, come partecipare a una premiazione in Italia di cui non capisce una parola o nuotare nella piscina privata di una suite come fosse la cosa più normale del mondo.
Insieme sembrano complici in un mondo che non capiscono.
Poi Cleo se ne va. E lui si sveglia, letteralmente.
Lo so, starete pensando: ma che recensione è questa? Infatti non è una recensione. Ho riflettuto diverse volte su questo film dopo averlo visto. E sono giunta a una conclusione.
Quando parlo di occasioni di festa, intendo circostanze della vita che ci fanno stare meglio, scoperte, riflessioni. Ecco, per come l'ho visto io, questo film è tutto costruito su una grande occasione di festa, che per il protagonista è l'arrivo inaspettato di questa figlia dolcissima, che non gli chiede nulla, che gli sta accanto senza giudicare le sue colpe o le sue assenze, che lo fa sorridere con semplicità e innocenza. E che gli ribalta le prospettive, lo mette in discussione come uomo.
E' un film pulito, lento, silenzioso, con molte pecche e molti meriti, imperfetto e forse non così bello da meritare il Leone d'Oro, ma è un film che fa trasparire un barlume di vita vera, e va al fondo delle cose senza sentimentalismi, con onestà, disseminando spunti di riflessione.
A me è sembrato una boccata d'aria fresca, primaverile.
Penso che lo rivedrò.


lunedì 11 ottobre 2010

Occasione di festa numero 33.

Allora, cara realtà. Tu mi guardi con aria di sfida e io che faccio? Ti guardo a mia volta, sforzandomi più che posso di intimorirti, per quanto cioè il mio dna facciale me lo permetta.
Ho la faccia a palla, paffuta, gli occhi enormi, dimostro almeno dieci anni meno della mia età?
Meglio! Mi giocherò l'effetto sorpresa. Da una con questa faccia non ti aspetteresti mai un tiro mancino.
E io invece ti fregherò.
Più tu mi prenderai a schiaffi, più io ti risponderò a mio modo: con la dolcezza, la tenacia, l'ironia, la vitalità tormentata, i difetti, la bontà.
Non starò alle tue regole: le conosco, devo conoscerle, ma non le seguirò.
Continuerò a credere, in tutti i modi che conosco, mi aggrapperò alla vita anche per un filo se necessario, anche quando tutto dice di lasciarsi andare. A proposito: mi lascerò andare quando invece tu imporresti il controllo, mi disciplinerò quando cercherai in tutti i modi di confondermi.
Guardami in faccia, ma stammi alla larga.
Ti insegnerò a rispettarmi, perché io ti rispetto, ma non chiedermi di più.
Perché, così come sei adesso, non mi piaci affatto.

sabato 9 ottobre 2010

Occasione di festa numero 32.


Olafur Eliasson, The sun has no money (Il sole non ha soldi), 2008

Ritengo la possibilità di fare pace con i ricordi una delle più grandi occasioni di festa della nostra vita. I ricordi sono un modo per ricordarci da dove veniamo, che cosa abbiamo imparato ma soprattutto chi non siamo più. Sono talvolta una calda coperta di cachemire ma, talvolta, un freddo telo di nylon pieno di buchi, che fa passare l'aria e l'acqua e però ci fa respirare male.
Ho imparato con la mia banalissima esperienza che la vita è nel momento presente, e che i ricordi devono essere tenuti in un angolino piccolissimo (un'amica direbbe: quadratino infinitesimale) della nostra esistenza. Non possono diventare un rifugio dalla realtà né, tantomeno, impedirci di proseguire nel nostro percorso.
Io ho fatto quest'ultimo errore. E, nel concreto, non riuscivo più ad approcciarmi all'arte contemporanea, quindi leggere riviste a tema, andare alle fiere, visitare mostre e musei. Soprattutto il Castello di Rivoli era la mia personale madeleine, un luogo della memoria che però suscitava in me sgradevolissime sensazioni. Avevo chiuso questa porta, che tante opportunità mi aveva dato in precedenza, perché ritenevo che mi fosse stata sbattuta in faccia con tutta la violenza possibile. Ora, posto che proiettarmi sul futuro mi costa una fatica titanica (vd. post precedente a questo), non ritenevo giusto precludermi anche solo la possibilità di andare in un certo posto perché questo mi ricordava cose brutte. Così, un paio di settimane fa, senza programmarlo siamo andati proprio al Castello di Rivoli.
Entrarci è stato un tuffo al cuore, lo ammetto.
Poi sono entrata nella stanza di Olafur Eliasson, che è l'artista contemporaneo che amo di più.
In un attimo è come se nella mia mente fosse spirato un verto fortissimo, di quelli che spazzano via tutte le nuvole, però non freddo, un vento di phon, tiepido e avvolgente proprio come una copertina di cachemire. Ho sgranato i miei occhioni da bambina e ho capito che ce la potevo fare, che è un altro nodo era stato sciolto, che avevo vinto io, ancora una volta.

mercoledì 6 ottobre 2010

Occasione di festa numero 31.

Riflettevo sull'opportunità di tenere in vita anche questo blog, dopo la brusca interruzione di Perfectly Delightful. Non riesco a trovare il tempo giusto, vorrei scrivere di determinati argomenti, ma è come se qualcosa dentro di me, non solo i troppi impegni che intasano la giornata, mi dicesse no non è il caso. Non è questione di autostima, è come se tutto ciò che mi è accaduto mi abbia tolto le forze, abbassato irrimediabilmente il bioritmo, privato di entusiasmo e passioni. E' come una momentanea vecchiaia precoce in cui faccio fatica a far tutto. Ho tante cose per cui provare gratitudine, e tante, ahimé, per cui essere dispiaciuta, oggettivamente intendo.
Mi manca l'ironia scintillante, il tocco glamour, la simpatica presunzione, eppure sono consapevole di avere conquistato mete che non potevo nemmeno immaginare, meravigliandomi del mio stesso coraggio. E' come una scala di cui non vedo la fine, che continua a salire, e ogni passo in più che faccio, tanto agognato, in realtà è seguito da un altro, e un altro ancora, e un altro ancora, che non si sa bene dove porti. E quando dico che faccio fatica non parlo di fatica solo mentale, ma anche fisica, faccio fatica a respirare, a sbattere gli occhi, a muovere i muscoli, come se il fatto che lo avessi già fatto milioni di volte nella mia vita dovesse bastare.
Però non voglio pensare che questo sforzo, che è la vita e nulla di più, mi precluda la possibilità di fare altro, di lasciare spazio a quella bambinetta dispettosa e rompicoglioni a cui piace scrivere, guardare i film, ascoltare musica ogni volta che può, stare in mezzo alla natura e respirare e saltellare e sgranare gli occhioni per la meraviglia... Forse è la necessità e la voglia di conciliare quella che sono da sempre e questa nuova creatura nata da neanche tre anni. Però, siccome è faticoso, che ne sarà di questo blogghino? Forse domani rispondo.

Occasione di festa numero 30.

"All'epoca del Buddha, a una donna di nome Kisagotami morì l'unico figlio. Incapace di accettare la perdita, Kisagotami consultò innumerevoli persone per trovare una medicina che riportasse in vita il ragazzo. Si diceva che il Buddha possedesse il miracoloso rimedio.
La donna allora andò da lui, gli rese omaggio e domandò: Hai un medicamento che riporti in vita mio figlio?
Ne conosco uno, rispose il Buddha, ma per prepararlo devo avere determinati ingredienti.
Sollevata, Kisagotami chiese: Di quali ingredienti hai bisogno?
Portami un pugno di senape disse lui.
La donna promise di procurarglieli, ma prima che se ne andasse il Buddha aggiunse: Bisogna che i semi di senape siano prelevati da una famiglia in cui non siano morti né figli, né coniugi, né genitori, né servitori.
Lei annuì e andò di casa in casa alla ricerca di quanto richiesto. Dappertutto la gente si mostrò disposta a darle i semi, ma quando Kisagotami si informò sugli eventuali lutti, non trovò alcuna casa a cui la morte non avesse fatto visita: in una era deceduta una figlia, in un'altra un domestico, in altre ancora il marito o un genitore. La donna non rinvenne una sola famiglia risparmiata dalla sofferenza della morte. Vedendo che non era sola nel suo dolore, depose il corpo esanime del figlio e tornò dal Buddha, il quale disse con grande compassione: Credevi di essere l'unica ad avere perso un figlio, ma la legge della morte è che in nessuna creatura vivente vi è permanenza."