Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

martedì 30 novembre 2010

Occasione di festa numero 46.

Seguo Carmen Consoli da tempo immemore, da quando io e lei eravamo ancora giovani e, come si suol dire, di belle speranze. 
Mi ha fatto quindi parecchio effetto sapere della pubblicazione della sua raccolta, anche se, in realtà, di anni dal suo esordio ne sono già passati una quindicina, il che significa che siamo ben vecchie, tutte e due. Ma significa anche una grande occasione di festa, perché scorrere i titoli (ben 40) di questo album doppio intitolato Per niente stanca è stato per me un flashback travolgente, di quelli che solo la musica e i profumi sono in grado di regalare. Come dire: quindici anni di vita e di avventure racchiusi in due cd.
Al di là delle implicazioni sentimentali - e mie personali, delle quali non frega niente a nessuno - quello che emerge da questa raccolta è l'unicità e l'assoluto spessore di una cantautrice coraggiosa nel costruirsi un suo percorso di crescita artistica coerente e granitico, intelligente e mai ruffiano, soprattutto impossibile da imitare - fateci caso.

Al suo esordio infatti Carmen si è fatta apprezzare per un approccio diretto e a suo modo epico tutto giocato sulla densità interpretativa e su un uso energico delle chitarre, nonché su testi personali e di facile immedesimazione.
Era però chiaro fin dall'inizio che l'artista fosse qualcosa di mai visto né sentito prima, almeno in Italia: sul palco di Sanremo, al suo debutto, Carmen è impaurita e timida, la chitarra a tracolla, ma di impressionante efficacia all'apertura del ritornello (tra l'altro, che canzone Amore di Plastica... e che grande autore, Mario Venuti): andate a vedere il video su You Tube, a me colpisce sempre.
Ma proprio chi si era innamorato di quella Carmen ha faticato poi a digerire il suo percorso di ricerca via via più raffinato.
La furia di brani come Fino all'ultimo, Besame Giuda o Contessa Miseria aveva ammaliato in molti, gli stessi che faticavano a rivederla mascherata sotto arrangiamenti ormai privati di orpelli elettrici. Perché in realtà Carmen non è cambiata, è semplicemente cresciuta, rielaborando la realtà coi mezzi acquisiti grazie all'esperienza della vita (quindi, musicale e non solo).
Gli arrangiamenti si sono fatti stratificati, gli strumenti utilizzati sono spesso di derivazione popolare, sconosciuti ai più, ma in grado di produrre suoni assolutamente rock (vd Mio Zio). I testi, inizialmente molto personali, sono diventati gradualmente racconti di storie, soprattutto femminili, talvolta un po' contorti e artificiosi ma sicuramente frutto di una sensibilità e di una capacità introspettiva non comune (Maria Catena, Tutto su Eva...).
E che il rock sia più uno stato mentale che non muore mai che una questione di strumenti lo dimostra il rifacimento, appositamente per questa raccolta, di pezzi non recentissimi del suo repertorio che, pur rieditati dopo parecchi anni, hanno una potenza di gran lunga superiore agli originali (Eco di sirene, Besame Giuda, Contessa Miseria).
Carmen, tuttavia, conserva gelosamente, come un trait d'union che percorre tutta la sua carriera, un'attitudine delicata e poetica tanto più significativa al confronto della furia di altri brani. Mi vengono in mente canzoni incantevoli come L'ultimo bacio, Blunotte, Parole di Burro e quella meraviglia, scritta un paio di anni fa per Adriano Celentano e qui riproposta, intitolata Anna Magnani (testo di Vincenzo Cerami).
Poi ci sono le musiche da film - la già citata L'ultimo bacio, Il Pendio dell'abbandono (con Goran Bregovic), Senza farsi male (da L'uomo che ama) e Je suis venue te dire que je m'en vais di Serge Gainsbourg, da Saturno Contro - i duetti, con Battiato e Angelique Kidjo, l'inaspettata ma ottima cover di Can't get you out of my head di Kylie Minogue, i due inediti - Guarda l'alba, musica scritta da Tiziano Ferro, e l'irresistibile AAA cercasi - e tutta una serie di brani scelti con cura e rispetto, perfetti per ricostruire un percorso artistico tutt'altro che prevedibile e scontato.
La musica di Carmen mi fa sentire a casa, in un luogo dove sono capita. E' difficile da spiegare. Forse in lei rivedo, realizzato, il sogno di fare musica, il mito della ragazza con la chitarra elettrica che insegna il rock a tanti uomini, il riscatto della timidezza che diventa nuda e violenta espressività sopra un palcoscenico. Mi è piaciuto il suo modo di crescere e invecchiare, diventando sempre più bella e interessante - vista dal vivo è uno schianto -, mettendosi in discussione e mai adagiandosi, cercando sempre nuovi modi per esprimersi e percorsi sconosciuti da percorrere con curiosità ed entusiasmo.
E poi, la voce. Quella voce che da sempre divide, ma che oggi si è arrochita, è diventata ruvida, sensuale, spudorata talvolta, insomma è infinitamente più bella e interessante della sua voce degli esordi semplicemente perché è la voce di una donna che ha vissuto trentasei magnifici anni di esperienze.


«La maternità è bellissima, come minimo farò tre figli e comincerò l'anno prossimo. (...) Dal prossimo anno potrei pensarci e quando diventerò mamma finirà Carmen Consoli, perché non mi fermerò a uno. E poi i bambini, la famiglia, si devono seguire. La mia carriera non mi ha permesso di fare figli prima, il mio contratto mi vincola ancora a due dischi. Io adesso consegno il mio best e un altro album di inediti, dopodiché farò la vita di tutte le donne, perché me lo merito».*

*intervista di Giovanni Attardi a Carmen Consoli del 5/09/2010, pubblicata su Ragusanews.com, 

ps: le foto, bellissime, sono state scattate da Giordano durante la data torinese dell'ultimo tour di Carmen, Ventunodieciduemilatrenta Tour, il 15 aprile 2010.
Ogni riproduzione non autorizzata è severamente vietata.

lunedì 29 novembre 2010

Occasione di festa numero 45.

La cucina è il regno delle opportunità e delle occasioni di festa, per me.
Imparo e scopro tante cose, mi cavo fuori da momenti malinconici e complicati e soprattutto mi sento utile a qualcosa. Così, siccome la scorsa settimana è girata proprio male, e siccome per la verità era da un po' di tempo che l'idea mi frullava nella testolina, e siccome io e Jody avevamo ricevuto un graditissimo invito a cena dai nostri cari Noemi e Claudio per condividere l'attesissima finale di X-Factor (ok, lo so, ho rotto. Giuro che ho finito coi "siccome"), l'idea ha preso corpo trasformandosi nel ciambellone nutelloso detto anche ciambella Nathalie - in onore della bravissima vincitrice di X-Factor.
A giudicare dalla conta dei sopravvissuti l'esperimento è riuscito e quindi lo condivido subito con voi.
La prima cosa da fare è pulire il tavolo e piazzare sopra tutto il necessario. Che sarebbe:
1. L'attrezzo del mestiere ovvero (maliziosi) il robottino impastatore. In mancanza, ciotolone, frusta da cucina e olio di gomito.
2. tre uova
3. 100 grammi di burro fuso intiepidito
4. 300 grammi di farina che lievita oppure 300 grammi di farina più una bustina di lievito (dolce mi raccomando!)
5. 200 grammi di zucchero
6. mezzo bicchiere di latte
7. un barattolo di Nutella da 250 grammi
8. zucchero a velo
9. stampo per ciambella di diametro 26 cm
10. grembiulino e buona musica (nel mio caso, Carmen Consoli).
Et voilà:
Bando agli entusiasmi che qui c'è da lavorare.
Prendiamo il ciotolotto e ci buttiamo dentro le 3 uova e lo zucchero. Col frustino amalgamiamo sì da ottenere una spumetta dolce. 
Aggiungiamo la farina, il lievito, il burro tiepido e il latte e facciamo lavorare di nuovo i frustini.
A questo punto la base dell'impasto è finita, voi la prendete e, dopo avere imburrato e infarinato lo stampo, ve la versate livellandola, mentre già vi vedo fare gli sboroni prendendovi gioco di me forti del vostro questo lo so fare anche io.
E invece no, la cucina è come l'arte contemporanea: la rielaborazione, l'interpretazione della realtà è tutto, e mica tutti son capaci.
Così io inizio a parlare dolcemente al mio impasto, a fargli ascoltare la musica buona, accarezzo il robottino che deve fare il suo dovere altrimenti volerà dalla finestra al freddo e al gelo, inizio a blandire il forno che è il supremo signore delle ricette: dipende tutto da lui.
Comunque, dopo che l'impasto sarà pronto, prendete il barattolo della Nutella e fate ciò che di solito scatena i più mostruosi sensi di colpa: andate giù di cucchiaione grande e schiaffate la Nutella a cerchio sopra l'impasto. Per intenderci, così:
E poi, con una forchetta, girate la Nutella nell'impasto per amalgamarvela.
Alla fine, per pulire il cucchiaione, vi è concesso attingervi con voluttà autodistruttiva - vorrete mica buttare tutto quel bendidio?!?
La quantità di Nutella da adagiare sull'impasto va un po' a gusti, nel senso che se volete semplicemente variegare ne mettete pochina, se invece volete fare un ciambellone proprio nutelloso non dovete essere avari - in pratica, svuotate il barattolo.
A questo punto è tutto nelle mani del forno, vero deus ex machina della provvidenza culinaria, che andrà impostato a 180° non ventilato e che dovrà far cuocere il nostro nutellotto per un tempo indicativo di 40 o 50 minuti (dipende dal forno: voi dopo 35 minuti iniziate a far la prova dello stuzzicadenti).
Passati questi interminabili minuti lasciamo raffreddare questa bontà e la copriamo con una dolce nevicata di zucchero a velo.
Il risultato è stato leggermente croccante all'esterno e morbidosissimo, a tratti scioglievole all'interno... Insomma una roba goduriosa ma talmente impegnativa da richiedere uno stomaco quasi vuoto per apprezzarla a dovere.
Che poi secondo me al ciambellone è pure piaciuto il disco della Carmen.

venerdì 19 novembre 2010

Occasione di festa numero 44.


La mia città è Torino. E Torino, da qualche anno a questa parte, è diventata bellissima, molto più bella di quanto non lo fosse prima. Molti luoghi sono per me croce e delizia, perché suscitano ricordi svariati, e non sempre piacevoli.
A questo poliedrico elenco di posti significativi, tuttavia, da un paio d'anni se n'è aggiunto uno che ha meritato fin da subito un posto d'onore nel mio cuoricino.
Questo posto è il MAO, Museo di arte orientale.
Io e Giordano ci andiamo spesso, almeno un paio di volte l'anno, e, se ce ne capita l'occasione, gli facciamo un sacco di pubblicità in giro e ci portiamo quanta più gente possibile, che puntualmente ne rimane entusiasta. Perché il MAO è un gran bel posto, un posto dove si sta bene, ci si rasserena, si vedono moltissime cose belle.
Il museo è allestito all'interno di un edificio del Seicento, Palazzo Mazzonis, che si trova in via San Domenico, pieno Quadrilatero Romano. Il quartiere, che da una decina d'anni è il cuore della vita notturna della città, fa da cornice straniante a questo luogo quieto, un'oasi di raccoglimento e di decompressione rispetto al frenetico brulicare dei forzati dell'aperitivo-cena-dopocena. In realtà il museo è aperto fino alle 18, ma il suo cancello d'ingresso promette continue meraviglie grazie a una feritoia strategica di forma circolare che, a qualsiasi ora del giorno e della notte, permette di sbirciare all'interno: i curiosi si troveranno così di fronte la visione di un lungo corridoio, fiancheggiato da due splendidi giardini zen, coronato da una statua del Buddha di incredibile bellezza.
Quest'immagine non può che essere, per i cuori sensibili, un forte richiamo, ed è anche l'antipasto di ciò che si potrà trovare all'interno, sia a livello di qualità delle collezioni, provenienti dal Museo di arte antica di Torino, dalla Regione Piemonte e dalla Fondazione Agnelli, sia per quanto riguarda l'allestimento, davvero magnifico nella scelta dei materiali, dei colori, della collocazione dei reperti, dell'illuminazione, dei pannelli esplicativi e dei punti informativi touch-screen, facili da usare anche per un'imbranata come la sottoscritta.
I percorsi espositivi sono sette, tematizzati geograficamente, ovvero Gandhara, India, Sudest asiatico, Cina, Giappone, Himalaya e Islam, e la visita richiede più o meno un paio d'ore - posto che gli dedichiate il giusto tempo, ça va sans dire!
Al MAO ci andiamo ogni volta che sentiamo il bisogno di serenità e di cose belle, e il fatto che sia un gioiellino nuovo di zecca della mia città mi rende particolarmente orgogliosa. 
Se ci fate un salto, dite che vi mando io.

giovedì 18 novembre 2010

Occasione di festa numero 43.

Gliel'avevo giurata, a quell'armadio mastodontico. Con occhi di bragia, gli dissi: tu, con le tue quattro ante gigantesche, presto sarai sistemato a dovere. Così, in un triste lunedì di pioggia, mi sono armata di scaletta-profumatori-grucce-scatole-postit-bacinella-sgrassatore-swiffer-vetril e ho dato il via all'operazione cambiodistagione.
E pensare che l'armadio quattrostagioni l'avevo scelto apposta, per ridurre al minimo l'impaccio. E invece, per vostra informazione: non serve a un bel niente, anzi! Vi fa lavorare il doppio.
La prima dolorosa scelta è: comincio da destra o da sinistra? Neanche da chiederlo.
L'anta sinistra propone due bastoni appendiabiti sovrapposti. Tiro giù tutto e butto sul letto così, ad minchiam. Amici, la prima cosa da fare in questi casi è chiedersi: tengo tutto? Butto qualcosa? Regalo qualcosa? La risposta è impegnativa, perché implica che vi mettiate davanti allo specchio, pazienti, e verifichiate la mettibilità o meno di ciò che vi sta di fronte. Piccolo aiuto: se un abito non lo mettete da più di due stagioni, avete due opzioni. 1) se è in buono stato, regalatelo a chi ne ha bisogno. 2) se è ridotto a una schifezza, inceneritelo.
Diamogli due stagioni di possibilità, a questi abiti. Magari una stagione li ignoriamo perché siamo scoffate paurosamente, oppure perché siamo depresse e i colori non li sopportiamo, o viceversa perché di nero e blu non ne possiamo più. Però potrebbero misteriosamente ripiacerci, la stagione dopo, e sarà come avere dei vestiti nuovi di zecca! Ma se per due anni li lasciamo impolverare solamente, la risposta è già dentro di voi.
Fatta questa dolorosa scelta, che è importante perché determinerà tutta l'architettura interna del nostro armadio, è fondamentale dare una vigorosa pulizia a bastoni e ripiani, togliere i vecchi profumatori e prepararne di nuovi, spazzolare e imbustare le giacche, lavare e stirare gli abiti estivi da mettere via negli scatoli. Poi io, per esempio, nell'anta sinistra sistemo anche le mie numerose borse borsette e borsettine, che dovrebbero essere anch'esse accuratamente selezionate, pulite con un panno umido e messe via sempre nei simpatici scatoli.
Scatolo, scatolotto mio. Sì, è in questi termini che dovete rivolgervi a lui, perché lui sarà il vostro più prezioso alleato. A braccia aperte saprà accogliere ciò che non volete più davanti, lo terrà fermo, lo conserverà gelosamente per i vostri utilizzi futuri. Io ne ho diversi, tutti colorati, e ciascuno dotato di postit-etichetta che indica il contenuto (... ecco a cosa servivano i postit). Li potete abbinare a loro volta, per dare un tocco creativo di colore anche al didentro del vostro bell'armadio.
Ripiani e cassetti sono l'ostacolo successivo. Ma sono oggetti, amici, quindi non dobbiamo temerli. Anzi sappiatelo: loro sono al nostro servizio, e noi li dobbiamo piegare alla nostra volontà. Allora prendiamo coperte, copertine, plaid, lenzuola, asciugamani grandi, asciugamani piccoli, strofinacci, teli da mare, e in prima fila maglie maglioni felpe etc etc. e disponiamoli con calma serafica su tutti i ripiani di cui disponiamo. Poi viene il momento che più a lungo abbiamo temuto. Perché i cassetti sono come l'antro del demonio: non sai mai cosa nascondono. Allora noi li rivolteremo come un calzino suddividendo maniacalmente lo spazio interno, debitamente sostenuti da due capisaldi dell'organizzazione dello spazio quali Muji e Ikea (sì, faccio pubblicità: e allora?). Alla fine del lavoro, l'interno dei vostri cassetti ostenterà una perfezione, una simmetria, una pulizia formale che neanche gli origami. Quindi concentrate tutte le vostre forze in questo momento topico.
Quando l'ultima gruccia è sistemata, chiudiamo l'armadio: abbiamo finito!!!
Grondanti sudore, guarderemo il nostro nemico con lo stesso sguardo del generale che ha condotto vittoriosamente i suoi uomini alla conquista di una nuova terra.
Nessuno oserà più fermarci.
Quindi siete avvisati, voi mobiletti del bagno: al prossimo giro siete finiti.

martedì 16 novembre 2010

Occasione di festa numero 42.


Ve lo ricordate, ho ricominciato a leggere (vd. Occasione di festa numero 39).
E, se avete imparato a conoscermi almeno un pochino, intuirete anche che, una volta che mi metto in moto vincendo la mia proverbiale lagnusìa, non mi fermo più.
E infatti la scorsa settimana, appena risistemato sullo scaffale il libro del Dalai Lama, mi sono piazzata davanti alla libreria in cerca del degno successore.
I grandi russi? No, basta, già dato.
Filosofia orientale? No, a questo giro salto.
Poi lo vedo. Piccolino, bianco bianco, elegante essenziale Einaudi. La sua discrezione tipicamente sabauda lo rendeva quasi invisibile in mezzo agli altri ma è stato proprio questo a incuriosirmi, e così, tempo un secondo, Stagioni di Mario Rigoni Stern era già nelle mie paffute manine.
E' stata una delle sue ultime opere, ma per me, che non lo conoscevo, è stata la prima.
In realtà avevo già letto il libro tre anni fa, ma non l'avevo capito. O, per meglio dire, non l'avevo sentito. Perché il fatto è proprio questo: un'opera di questo tipo va vissuta con intensità, partecipazione, abbandono. E allora non lo sapevo fare, o non ne avevo ancora bisogno. Mi piace però pensare che il destino abbia visto più lungo di me, e mi abbia fatto scegliere questo libro sapendo già che un giorno sarei stata pronta.
In ogni pagina di Stagioni c'è scritto VITA a caratteri cubitali.
Io che amo segnare a matita i passi che mi piacciono di più, per poi ritornarci ogni volta che ne sento il bisogno, sto scarabocchiando questo libro in modo quasi irrispettoso, ma quanto amore c'è in ogni sottolineatura!
Amo il modo in cui parla degli alberi, delle specie animali, dei fenomeni atmosferici. Amo la densità della sua scrittura, il forte peso specifico di ogni parola, la dignitosa asciuttezza dell'uomo di montagna, la dolcezza inaspettata. E poi quanta competenza, e quante parole nuove, che non avevo mai sentito.
Mai mi era capitato di emozionarmi tanto per un'opera di narrativa.
Piccola piccola, leggera come una foglia autunnale, ma che solo un uomo grande grande poteva scrivere.


"Le prime allodole arrivavano quando il sole nella sua risalita rendeva libere dalla neve le rive esposte a sud. Un mattino sentivi un brivido percorrere le membra, vedevi uno svolare sopra la proda e dopo il trillo gioioso dell'allodola mattiniera. Era un attimo di felicità. Ma da dove arrivava questo intenso sentimento? Da quale remotissima mattina del mondo? Era bello quel giorno, era bella tutta la terra, era buona la gente."

sabato 13 novembre 2010

Occasione di festa numero 41.



Suu Kyi libera: saluta la folla festante

Soddisfazione Gb e Francia, Amnesty 'liberi tutti i prigionieri'

13 novembre, 14:07

(ANSA) - ROMA, 13 NOV - "C'e' un tempo per il silenzio e un tempo per parlare": cosi' Aung San Suu Kyi, la leader democratica birmana tornata oggi in liberta', si e' rivolta alla folla festante che la aspettava davanti casa. Londra e Parigi hanno manifestato soddisfazione per la liberazione della dissidente birmana mentre Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International ha dichiarato che 'il rilascio di Aung San Suu Kyi non deve far dimenticare gli altri (oltre 2200) prigionieri di coscienza''.

mercoledì 3 novembre 2010

Occasione di festa numero 40.



Dalla notte che mi avvolge
Nera come la fossa dell'Inferno
Rendo grazie a qualunque Dio ci sia
Per la mia anima invincibile


La morsa feroce degli eventi
Non m'ha tratto smorfia o grido
Sferzata a sangue dalla sorte
Non s'è piegata la mia testa


Di là da questo luogo d'ira e di lacrime
Si staglia solo l'orrore della fine
Ma in faccia agli anni che minacciano
Sono e sarò sempre imperturbato


Non importa quanto angusta sia la porta
Quanto impetuosa la sentenza
Sono il padrone del mio destino
Il capitano della mia anima.


William Ernest Henley, Invictus (1875).


NB: La poesia è citata nel film del 2009 Invictus - L'invincibile di Clint Eastwood. Viene infatti usata da Nelson Mandela (Morgan Freeman) prima per alleviare gli anni della sua prigionia durante l'apartheid e poi per incoraggiare il capitano della squadra sudafricana di rugby François Pienaar (Matt Damon). 
Da Wikipedia

martedì 2 novembre 2010

Occasione di festa numero 39.

Questa sera cari amici la mia occasione di festa è piccola piccola ma molto significativa.
Dopo molto tempo sono riuscita a terminare un libro. Eh! Direte voi. Capirai che risultato. E invece no perché per me questa cosa era diventata impossibile più o meno dal momento in cui mi sono laureata.
Io la chiamo la teoria dell'overload, del sovraccarico.
In pratica durante gli anni dell'università mi sono data alla lettura matta e disperatissima di decine e decine di libri, spesso più per necessità di preparare gli esami di letteratura, e quindi per obbligo, che per reale piacere. Avevo sempre adorato leggere, oltre che scrivere, ma converrete con me che inocularsi Guerra e Pace nel tempo record di due mesi non fa bene all'anima. Piace, ma è immorale. Se a ciò aggiungete l'opera omnia dell'amato Dostoevskij, e Cechov, e Bulgakov, e duemila autori russi e polacchi minori, e tutti i relativi saggi critici e antologie letterarie e tomi di storia nel giro di cinque anni, il quadro della mia situazione cerebrale è completo.
Mettiamola così: è stato un modo per non volersi bene.
Opere meravigliose, ricche di significato, profonde come un fiume che scorre lento, ma svilite, violentate dalla fretta, dalla necessità di assimilare tutto in poco tempo.
Per non parlare della formazione di un gusto talmente raffinato ed elevato da farmi schifare ogni altra opera letteraria che mi capitava sotto tiro.
Ebbene sì, lo confesso, anche se per tanto tempo mi sono vergognata anche solo ad ammetterlo: per cinque anni ho letto solo riviste e quotidiani.
La mia mente era stata come brutalizzata da quell'eccesso di informazioni e ricercavo disperatamente la semplicità, anche la banalità talvolta.
Due anni fa ho letto ad alta voce Firmino di Sam Savage. Carino, ma nulla più. I fantasmi dei grandi vecchi della letteratura russa stavano lì a ricordarmi che meglio di loro non c'era nessuno. Mi sono di nuovo scoraggiata e ho passato altri due anni di disintossicazione.
Poi, grazie a Giordano, ho preso in mano L'arte della felicità. Si tratta di conversazioni tra il Dalai Lama e lo psichiatra Howard C. Cutler. Ho iniziato a leggerlo nel tragitto casa-lavoro, poi 
nelle pause al lavoro, poi prima di andare a letto. 
Mi ha conquistato.
Così ieri sera, dopo tre mesi di lenta, paziente, cosciente lettura l'ho terminato.
Ero davvero felicissima e non vedevo l'ora di condividerlo con voi!
Vi terrò aggiornata sui prossimi libri che riuscirò a leggere.