E una colonna sonora che non dimenticherò, un altro di quei piccoli miracoli pop in cui magicamente critica e pubblico si incontrano: Bittersweet symphony dei Verve.
I Verve erano una band inglese che, beneficiando degli ultimi strascichi del brit-pop, riuscì a suscitare l'attenzione di stampa musicale, marketing e pubblico grazie a un grande singolo (Bittersweet symphony, appunto) e a un album spettacolare, un altro dei mitici timeless classics della vostra cialtrona: Urban Hymns. A parte il meraviglioso titolo, l'album è perfetto dall'inizio alla fine. Un magma di emotività esplorata in tutte le sue gradazioni, dalla rabbia all'amore, dalla malinconia alla sospensione lisergica.
Era chiaro fin da subito che il brit-pop non era stato altro che il cavallo per attraversare il fiume. C'era dell'altro: ben altro. Un rock'n'roll chitarristico suonato da dio, un senso della melodia quasi beatlesiano, atmosfere psichedeliche degne del miglior rock anni Settanta. Se non bastasse, un elemento che nelle grandi band non manca mai: un leader carismatico in perenne conflitto con l'altro grande ego del gruppo, il chitarrista. E tutto il corollario rock'n'roll di droga e camere d'hotel sfasciate.
I Verve sono stati una fiammata potentissima ma breve e instabile, nella storia del rock: questo è stato il loro limite e il loro fascino.
Ma torniamo al mio percorso psicovintage: estate 1997, prima vacanzina da sola, i Verve. Evidentemente fu una botta di autostima e di good vibes perché l'ultimo anno di liceo fu, insieme al terzo, in assoluto il più piacevole. Le vecchie amicizie, quelle sane, si cementarono; quelle che non erano vere amicizie si persero; e ci furono nuovi compagni di strada a farmi piacevole compagnia. Ci furono un sacco di feste dei diciotto anni, facevo una vita discretamente mondana (per i miei standard ovviamente), in qualche modo avevo trovato una mia collocazione, una mia femminilità, un mio saper stare al mondo. Decisi che mi bastava ciò che avevo, andava bene così. Ero sempre la solita timida, imbranata coi ragazzi e ingenua, diciamolo. E con quella complessità di fondo che mi faceva ingrovigliare le situazioni più semplici.
Ma ero io, in cerca di me stessa, che mi confrontavo con un mondo sempre più adulto: l'esame di maturità, la patente, la scelta dell'università. Finalmente molti pezzi si stavano ricomponendo, ma ero anche consapevole che nuove, ben più grandi sfide mi aspettavano, e che comunque parecchi nodi sarebbero venuti al pettine.
Nel frattempo, però, mi godevo un periodo sereno e tutto sommato spensierato, in cui alcuni screzi passati si vennero persino a ricomporre.
A tal proposito, ho da sempre una teoria: quella delle foglie d'autunno. Le cose della vita tendono al massimo della loro bellezza un attimo prima di spegnersi. Ecco: i mesi scolastici tra il 1997 e il 1998 furono esattamente questo.
E, come sempre, più io vivevo più la musica rimaneva sullo sfondo, veniva fruita in modo più passivo. Verve a parte, che furono davvero il fil rouge di quell'anno, il resto fu poca cosa: Natalie Imbruglia, stellina pop di quel periodo, Tragic Kingdom dei No Doubt, Ok Computer dei Radiohead, Homogenic di Bjork, Big Calm dei Morcheeba, Ray of Light di Madonna. Intendiamoci: poca cosa per modo di dire. Ciascuno di questi album ha probabilmente rappresentato il climax delle rispettive carriere. Però ero io che mi rapportavo alla musica in modo diverso. Una compagna discreta, che sapeva quando mettersi da parte. E così fu, anche quella volta. La musica sapeva sempre come salvarmi, anche restando sullo sfondo.
(continua...)
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