Questo esordio così confusionario non vi spaventi: è pienamente in linea con l'argomento di oggi.
Dovete sapere che, fin da bambina, sono sempre stata considerata una bambina tranquilla, attenta, posata - parola, quest'ultima, che detesto, in quanto più adatta a un soprammobile che a un essere umano. Già su questi tre aggettivi avrei da ridire. Anzi, avrei da ridire proprio sulle etichette: come pensare di sminuire la complessità di un individuo in poche, banali parole? Eppure si fa, e lo facciamo tutti. E' un vizio culturale, purtroppo.
Dicevamo dei tre aggettivi. Ho da ridire in quanto:
a) "tranquilla" è un concetto relativo. Esteriormente apparirò pure calma, ma dentro covo un groviglio di complessità tali da avermi mandato in esaurimento nervoso non molto tempo fa. Il progresso è stato nell'accorgermene, nel guardarmi dentro, nel conviverci. E nella ricerca di una vera tranquillità - che è ben altra cosa, e non a caso il mio blogghino è tutto dedicato a questa ricerca!
b) "posata": tanto per cominciare, che significa? Etimologicamente, indica una persona che pensa a lungo prima di agire. Vero, verissimo. Il problema è che penso troppo a lungo, e va a finire che agisco poco. Così me ne sto lì, ferma, non do fastidio a nessuno, e non sono di nessuna utilità. Se posato deve significare non esporsi, non mettersi in gioco, mostrare di se solo i lati perbene - oddio, un'altra parola detestabile - per non essere attaccabile, allora lasciamo perdere. Il coté posato io l'ho abbandonato due anni fa, quando ho capito che l'esaurimento mi era venuto anche per questa abitudine - perché alla fine si tratta di un'abitudine, di un comportamento ereditato con l'educazione, anzi per meglio dire si tratta di una eccessiva educazione.
c) "attenta": a questa definizione di me stessa credevo anch'io, fermamente. Poi poco tempo fa è successo che, mentre parlavo con una persona a me molto cara, all'improvviso non ricordavo più di cosa stesse parlando, a chi o cosa si riferisse. E mi sono detta: forse perché quando me ne ha parlato la prima volta non ho prestato la dovuta attenzione?
Da lì si è scatenato un effetto valanga: ho ripensato alla fatica immane nel memorizzare e assimilare le lezioni a scuola (e leggi una volta, e leggi due volte, e sottolinea, e rileggi sottolineato, e ripeti una prima volta guardando il libro e una seconda volta senza guardarlo); ho ripensato a come non sapevo dire il colore degli occhi di persone a me care; ho ripensato a come non sapevo descrivere il loro abbigliamento; ho ripensato a come ho sempre bisogno che mi vengano ricordate le regole dei giochi perché le dimentico appena finito; ho ripensato a come, per cucinare, devo sempre avere sott'occhio la ricetta. E un'infinità di altri esempi coi quali non voglio tediarvi.
In poche parole: ho capito che la mia è una tremenda mancanza di attenzione. Se faccio una cosa, in realtà ne ho già in mente un'altra, e tengo in piedi contemporaneamente più pensieri e/o più cose da fare. Anche questo, forse, è un vizio culturale, o lo è in parte, perché ci viene chiesto di essere veloci, efficienti, attenti. Il tempo non basta mai allora corri, corri, ottimizza!
Ci sono persone che possiedono un'elevata capacità di concentrazione, e assimilano le informazioni con uno sforzo relativo. Queste persone, di solito, fanno sempre una cosa per volta, e, spesso, la fanno con calma.
Io sono il contrario. E la fatica che faccio mi ha reso la vita molto più complicata e stancante.
Però se ne può uscire, e io, lentamente, ci sto riuscendo.
Pulire la mente dai pensieri non necessari richiede una ferrea disciplina, così come la pratica stessa della meditazione. All'inizio, facevo resistenza, senza realmente rendermi conto del perché. I pensieri inquinanti avevano il sopravvento. Poi ho imparato a prestare attenzione unicamente al respiro, e mi si è aperto un mondo. All'improvviso c'era solo il respiro che, come una brezza tesa, aveva spazzato via tutte le nebbie. I problemi hanno iniziato a delinearsi nitidi, chiari, e altrettanto chiaro è stato capire come tentare di risolverli.
Bisogna farlo ogni giorno, e non scappare se quello che vediamo non ci piace! Anzi, dobbiamo guardarlo dritto in faccia e dirgli: tu sei parte di me, e io mi prenderò cura di te. Non possiamo essere tutti buoni, perbene, posati, tranquilli, attenti: nessuno lo è e, se vuole farcelo credere, mente a se stesso prima che a noi. Meno ci accaniamo contro quella parte sgradevole, più questa si armonizzerà con le altre, e anzi contribuirà a renderci unici e speciali rispetto a tutti gli altri. Non solo: gli altri, vedendo in noi quelle fragilità, si avvicineranno a noi più facilmente perché si sentiranno meno soli, fragili imperfetti e confusi come sono anch'essi.
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