Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

sabato 24 settembre 2011

Occasione di festa numero 108.

Avete presente i miei Music Saves, ovvero quei post a episodi, un bel po' cialtroni, che raccontano la mia vita attraverso la musica? Ecco: Pearl Jam Twenty (regia di Cameron Crowe) è un Music Saves collettivo. Racconta sì i vent'anni di vita di una band, ma spinge lo spettatore a rivivere quegli anni, soprattutto i primi, e a chiedersi: e io dov'ero, allora? Come mi vestivo, con chi uscivo, ero innamorato, ero felice? Perché per molte persone (compresa la simpatica cialtrona) i Pearl Jam sono stati la colonna sonora di una parte importante della vita, delle figure familiari, positive, degli amici persino, e quando si festeggia il compleanno di un amico è inevitabile fare qualche bilancio.
il regista Cameron Crowe (a sinistra) e Eddie Vedder nel 1993
E allora parto da qui per raccontarvi PJ20, che è un gioiellino, scorre veloce per quasi due ore e piace anche a chi non è fan e - voglio esagerare - anche a chi di musica non importa nulla. Ci si emoziona, tanto. Ma non con facili scorciatoie. Cosa che un po' temevo: pensavo che sarebbero stati selezionati solo i brani più famosi e invece no perché l'unica concessione è la versione-fiume di Alive, infilata quasi alla fine, fatta di montaggi di tantissime esibizioni del pezzo durante gli anni, con un assolo di chitarra pazzesco e il solito Eddie che si arrampica ovunque e si butta in una sequenza di dieci stage-diving kamikaze. 
il regista, oggi, con Stone Gossard (a destra)
Un altro spauracchio era l'evocazione dei cari estinti del grunge: e anche qui vi dico invece no, perché piuttosto che indugiare sul rapporto della band con Kurt Cobain e Layne Staley, ricorda en passant l'odio-amore con il leader dei Nirvana - qui rappresentato come una sorta di puntello, di coscienza critica -, fa solo intravedere in qualche frame il cantante degli Alice in Chains (senza mai citarlo) e preferisce piuttosto dedicare un bel pezzo della parte iniziale alla esplosiva figura di Andy Wood, morto di overdose nel 1990 e cantante dei Mother Love Bone, la band dalle cui ceneri sorgeranno proprio i Pearl Jam. 
Eddie Vedder nel video di "Jeremy"
Poeticamente parlando la scelta è stata giusta, perché segna per i ragazzi la fine dell'innocenza ma anche il momento decisivo che di fatto cambia il loro destino, e li rende la grande band che ancora oggi sono; così come un altro nodo narrativo è la tragedia di Roskilde, avvenuta nel 2000 e nelle quale, proprio durante la performance dei nostri, nove ragazzi morirono schiacciati dalla calca. Eddie ricorda come l'evento fu per loro non solo una esperienza personale devastante ma anche una presa di coscienza fortissima, come musicisti, dopo tutti gli anni di granitica coerenza e di antagonismo al mainstream e alle logiche dell'industria discografica: "dopo gli anni dei no, forse era il caso di ricominciare a dire qualche sì".
i ragazzi, oggi
Sì perché quelli che Eddie definisce come "anni dei no", gli anni in cui la band cerca di scrollarsi di dosso l'enorme e inaspettato successo iniziale, costituiscono la parte centrale del film, con un interessante intermezzo da legal drama quando viene narrata la guerra col colosso dei botteghini Ticketmaster (e dove compare sai chi? David Lynch. Ma non vi dico altro per non rovinarvi la sorpresa). Un altro ottimo stratagemma narrativo, così come quello di condensare in due minuti, sotto forma di comica muta, l'avvicendarsi dei molteplici batteristi del gruppo, o quello di mostrare la contestatissima esibizione di Bu$hleaguer in cui Eddie indossa una maschera di George Bush e una giacca di paillettes gialle.
...
Accanto a queste scelte, che rendono PJ20 un vero film piuttosto che un classico rockumentary, ce ne sono altre che funzionano a meraviglia: scegliere brani meno conosciuti ma più funzionali all'atmosfera del momento; utilizzare tonnellate di materiale di repertorio, spesso di pessima qualità, e cucirlo con pazienza certosina e ironia; costruire la narrazione facendola passare dai volti dei componenti storici della band, intervistati dal regista.
i ragazzi, oggi, con il regista (primo da sinistra)
Emoziona vedere quattro (non più) ragazzi nella loro inaspettata normalità, quanto di più lontano dal topos della rockstar si possa immaginare. Stone e Jeff, forse i meno talentuosi ma la spina dorsale del gruppo: quelli che l'hanno voluto, creato, che si sono presi i cosiddetti maldipancia (c'erano loro in tribunale, a testimoniare contro Ticketmaster), quelli coi piedi per terra, quelli simpatici che sanno sempre stare un passo indietro ma che fanno gruppo come nessun altro. 
Stone Gossard e Jeff Ament, oggi
Mike, defilato e timido ma così bravo quando è ora di tirar fuori assoli di chitarra pazzeschi. E poi Eddie: timidissimo, la voce profonda e calma, l'emblema della riluttanza salvo poi, su un palco, sprigionare un talento e un carisma senza i quali la band non sarebbe così grande come effettivamente è. E poi quegli occhi, e quel sorriso (sì, sorride! E sorride tantissimo, nel film! Ragazzeeee), eloquenti più di mille parole.
Eddie Vedder
Cameron Crowe, uno che vive di musica da quando è nato, firma il film da regista e da amico: da regista, quando si tratta di fare scelte che funzionino; da amico, quando intervista i ragazzi e ce li mostra nella loro naturalezza.
La sintesi perfetta di questi due approcci la troviamo però nell'episodio che segue.
Quasi verso la fine del film la telecamera segue il chitarrista Stone Gossard nello scantinato della sua casa. Tra oggetti impolverati e ormai dimenticati, spunta un Grammy Award: non si ricorda nemmeno quando e in che occasione la band l'abbia vinto. Si gira verso Cameron Crowe e gli dice ridendo, quasi scusandosi: "penso che questo faccia capire che cosa ne penso".
Cameron Crowe, Eddie Vedder e l'ukulele
 E allora a me è venuta in mente la scena del fotografo maliano Malick Sidibé che, ricevendo la visita di un giornalista italiano, mostra tutti i prestigiosi premi ricevuti stipati dentro una scatola rossa e pronti a essere usati come giocattoli dai suoi numerosi nipoti. Alla fine l'approccio è lo stesso: il sano scetticismo delle persone semplici di fronte alla celebrazione del proprio ego. C'è chi darebbe la vita per uno solo di quei premi, e chi no, e io dico che è qui che sta la qualità del legno (se capite cosa intendo).
Cameron Crowe e Mike McCready (a destra)
Una bella cosa, questo Pearl Jam Twenty. C'è il romanzo di formazione, ci sono gli snodi narrativi, c'è il dramma, ci sono le scelte poetiche, c'è la costruzione dei personaggi. E beh, c'è una colonna sonora fantastica. Se poi siete fan o supermegafan come me, c'è persino di che commuoversi.

P.S.  ah e poi ragazzeeeeee! Si vede un bel po' di quel gran figo di Chris Cornell. 

2 commenti:

  1. Meraviglia!!!
    Mi spiace così tanto non averlo visto con te :(
    Certo che farlo uscire nelle sale un giorno solo...
    Devo vederlo! Devo vederlo!!

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  2. grazie Emma! anche a me è dispiaciuto non vederlo insieme e non commentare indegnamente a ogni comparsa di Eddie o di Chris Cornell, però devo rendere merito al mio fantastico ingegnere che ha tollerato tutto questo con la calma di un bodhisattva!! :)
    un bacione

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