Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

venerdì 26 marzo 2010

Occasione di festa numero 21.

La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me.

Quale occasione di festa migliore del proprio compleanno? Soprattutto quando si smette di contare quanti anni sono! Ah, gente, oggi non mi ferma nessuno. Sono state due settimane un po' faticose le ultime, ma stamattina mi sono alzata e mi sono detta: "Sara, sai che ti dico? Chisseneimporta!".
Ed è successa una cosa incredibile. Al mio risveglio, come molti giorni di quest'ultima settimana d'altronde, il tempo era abominevole a dir poco. Nebbia, grigio, pioggia. Le mie primuline, opportunamente sistemate sul balcone, ne erano entusiaste. Io un po' meno.
Così ho fatto tutti i mestieri: ho pulito casa, ho lavato, ho stirato. A Cinderella Birthday.
Dopo pranzo, un pisolino, e poi... apro gli occhi. La casa era inondata di sole! Corro fuori: finalmente il panorama magnifico delle Alpi e delle Prealpi si mostrava di nuovo in tutto il suo splendore, nitido, terso. Cos'era successo? Un vento fortissimo nel giro di mezz'ora aveva portato via tutte le nuvole. E aveva condotto fino a me un sole caldissimo, tanto caldo da asciugare i panni stesi in un'ora.
"Grazie!", ho detto rivolta al cielo. Mi aveva regalato una giornata magnifica e inaspettata, di quelle che piacciono a me. E mi è sembrato che questa giornata così imprevedibile mi rispecchiasse fedelmente: momenti di grigio e pioggia, malinconici e pigri, e poi improvvise folate di vento a portare un cielo più blu del blu e un sole dolcissimo.
Però ancora non ho festeggiato: e allora iniziamo adesso un perfetto party weekend, in attesa di due giornate a celebrare questa ricorrenza con le persone che ho più care al mondo.
Allora siete pronti? Alzate il volume... E muovete il culetto!
Perché, oltre al proprio compleanno, anche ballare è una grandissima occasione di festa!!!




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lunedì 22 marzo 2010

Occasione di festa numero 20.


Cari amici, siamo arrivati al ventesimo post. Ogni dieci post mi sono promessa di regalarvi parole a me care, non importa da dove vengano, importa la loro incredibile ricchezza di significato. In questa occasione il mio dono è questo brano, tratto dal Vangelo secondo Giovanni, che, a prescindere dal vostro credo o non credo, racchiude in sé un messaggio universale e altissimo. Buona lettura.

Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più".

Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)

giovedì 18 marzo 2010

Occasione di festa numero 19.

Per bilanciare il post di ieri, pesantino sebbene vero anzichenò, oggi inauguro una rubrichina piccola piccola ma, secondo me, assai salutare.
Occasioni di festa in musica.
Ovvero: ascolta che ti passa.
Oggi vi propongo il seguente tris:

1. Vasco Rossi: Una splendida giornata



2. Mario Venuti: Un attimo di gioia



3. Ekova: Starlight in Daden



... E già si respira meglio! ;)

mercoledì 17 marzo 2010

Occasione di festa numero 18.

Quest'ultima settimana si sta rivelando decisamente faticosa. Pensieri, malumore, vecchi ricordi brutti, scazzi sul lavoro con qualche cliente non proprio di basso profilo (riferendomi alla sua educazione, ça va sans dire).
Ma comunque.
Sarà tutto questo, o saranno le due riflessioni qui sotto ad avermi riacceso certe memorie che credevo di aver riposto nel mio personale sottosuolo?

Eccole qui, le riflessioni:

e


Perché alla fine avere la possibilità di guardarsi dentro, di fare la pace con ricordi e situazioni vissute, o anche solo sapere di non essere soli può essere un'occasione di festa. Con una necessaria premessa malinconica e dolorosa.

Quelle due riflessioni, incrociate e opportunamente adattate, sono la storia della mia vita negli ultimi anni. Una storia personale inserita in un più ampio quadro generazionale.
Per me è molto difficile fare la pace con quello che mi è accaduto. Però, forse, parlarne mi libererà da un peso, sarà una boccata d'ossigeno.
E servirà a qualcuno per sentirsi meno solo, così come mi sono sentita io leggendo soprattutto dell'esperienza di Morgan (vd il primo link qui sopra).

Io mi sono laureata in Lingue nel novembre 2005. Russo e polacco. I primi mesi dopo la laurea, nessuna risposta ai (centinaia di) curricula. Poi, la decisione di investire il mio tempo studiando l'inglese e frequentando un corso di tecniche editoriali. Qual era il mio sogno? Fare la traduttrice, o comunque lavorare in una casa editrice, dedicarmi all'editing, alla correzione di bozze. Sono una persona metodica e precisa e mi vedevo tagliata per quel tipo di occupazione. Dopo il corso di editoria, mi viene data la possibilità di fare tre mesi di stage presso la redazione di un portale dedicato all'arte contemporanea. Non vi dico l'entusiasmo. Piccolo problemino: avrei lavorato gratis, full time. Ma sì, mi sono detta: "mi devo fare le ossa".
L'ambiente è carino, il capo è giovane, i colleghi simpatici e più o meno nella mia stessa situazione. Sostanzialmente mi occupo di data entry: inserire i dati nel portale, aggiornare il database insomma. Di correzione di bozze ne vedevo poche, di editing idem, di traduzioni forse qualcuna in più. Certo, non era proprio quello che speravo. Ma vuoi mettere che fico, lavorare in una redazione? Partecipare alle fiere? Lavorare all'interno di una galleria d'arte?
Dopo due settimane, mi viene proposto di sostituire una delle impiegate che si era appena licenziata: si parla di 800 euro al mese, ma ovviamente allo scadere dello stage. Quindi, altri due mesi e mezzo gratis, ma con le responsabilità e le mansioni di chi ne prendeva 1000. Beh, ottimo, mi dicevo, c'è una prospettiva di rimanere, di fare una bella esperienza, di mettermi alla prova. Poi mi farà il contratto e magari, pian piano, aumenterà lo stipendio.
Scadono i tre mesi e il primo stipendio, tanto per iniziare, arriva con 2 settimane di ritardo. Si parla di contratto, a progetto ovviamente, ma nessuna bozza viene sottoposta alla mia attenzione. Passano i mesi. Cambiamo ufficio. D'estate, nel bel luglio torrido, i miei capi (perché son diventati due: lui e la compagna) decidono di andare in ferie, nel bel mezzo del lavoro, appioppando a me e all'ultimo collega rimasto il loro gatto, che per l'isteria d'essere rimasto solo ogni tanto pensa bene di scagazzare sulla scrivania. Laureata, quattro lingue, a pulire la merda del gatto (scusate, ma di questo si trattava). Gli stipendi continuano ad arrivare in ritardo, il capo è sempre più di malumore, ma a marzo era nata la rivista cartacea del portale, da gennaio avevo iniziato a scrivere articoli miei, mi sentivo in gioco, mi piaceva infinitamente il mio lavoro. Sopportavo per amore dei miei sogni, quello che facevo andava oltre ogni più rosea aspettativa.
Però il contratto ancora non c'era, l'ufficio era freddo perché il riscaldamento è rotto e non viene riparato, coi capi il rapporto è fin troppo amichevole ed è facile per loro dirti che sono messi male, che di soldi non ne hanno neanche per loro, cosa fai, gli chiedi dello stipendio o del contratto? Ma no, poverini.
"Ah, ma vi farò il contratto, vorrei anche farvi l'aumento e mi sto informando per i ticket restaurant". Questo a settembre.
Poi, verso l'autunno, inizia il malumore. Non siamo convinti, non ci crediamo, non ci diamo abbastanza alla causa. Ovviamente noi sottoposti. Un giorno prima della fiera di Artissima, ho il primo attacco d'ansia della mia vita. Lo stipendio di agosto era arrivato a ottobre, l'ufficio era gelido, dovevamo sopportare la presenza dei due cani della coppia, il clima era diventato teso.
Iniziano a esserci le prime serie rimostranze sul mio lavoro.
Io ho smesso di chiedere, di sperare, di sognare.
A gennaio, cambiamo di nuovo ufficio. Il vecchio collega non c'è più, mandato via senza preavviso. Ce ne sono due nuovi, entusiasti proprio come ero io all'inizio.
Al primo attacco d'ansia ne sono seguiti altri, mi è venuta la colite nervosa, sono sempre di umore pessimo, faccio il mio lavoro sempre peggio.
Lunedì 18 febbraio 2008 vengo pesantemente redarguita davanti ai colleghi perché non ci credo abbastanza, non sono aggressiva; mi verrà chiesto un sempre maggiore coinvolgimento nella causa ma alle stesse condizioni, perché soldi non ce n'è: "poi sta a voi fare le dovute valutazioni, mettere tutto sul piatto della bilancia". A un certo punto non ascolto più, il mio cervello si scollega. L'ultima cosa che ricordo è la frase del capo: "Sara che c'è, ti vedo pallida". Ridacchiando ironico.
La sera torno a casa, e da quel momento, per tutta la settimana, avrò attacchi isterici in successione. Poi diventeranno depressione, con punte di panico.
Il medico di base mi dice di stare a casa almeno due settimane: "eccessivo stress". Dopo due settimane, le cose non cambiano. Avviso che non tornerò più al lavoro. Nessuna telefonata da parte loro, non un insulto, oppure un chiedere perché, o come stai.
Ho dato la salute per loro. Ho dato la dignità. Ho dato i sogni. Ho dato una parte significativa della mia vita. E questa è la loro reazione.
Decido comunque di avere ciò che mi spetta, e, con l'aiuto dei miei genitori, mi rivolgo a un avvocato. Mio padre sarebbe andato fino in fondo, gli avrebbe fatto causa. Io non ce la facevo, psicologicamente. Però in sede di direzione provinciale del lavoro vengono riconosciute le mie ragioni.
Il risultato di tutto questo?
Un anno di psicoterapia, l'esperienza della depressione, dell'ansia, degli psicofarmaci; il confronto con me stessa e le mie zone più buie. Un anno e quattro mesi senza lavorare, perché alla parola "lavoro" ero paralizzata dal terrore. E oggi, un lavoro dignitoso in un call center per cui non guadagno che seicento euro al mese. Ho trentun anni, convivo con una persona splendida, devo molto all'aiuto dei miei genitori, ma non ho grandi prospettive. Il sogno continuo a coltivarlo, ma è faticosissimo: fidarmi del lavoro e delle persone mi causa uno sforzo anormale. So di valere, ma spesso i vecchi fantasmi ritornano, e mi spezzano le gambe. Guardo un mondo di cui non faccio più parte e infine mi chiedo cos'è che realmente voglio. Rimetto in discussione tutto, cerco solo di godere di ogni attimo di serenità che riesco a conquistarmi con fatica e disciplina.
L'ansia non è scomparsa, convivo con una costante tendenza alla depressione.
Però sono ancora qui, e non so dove sarò domani.
Quando smetto di chiedermelo, sto meglio.
Ma non sempre è tutto così semplice.

lunedì 15 marzo 2010

Occasione di festa numero 17.

Una giornata in due film.

Questa mattina il mio umore era pressappoco così:



Poi è diventato così:



E' bastato dedicarmi con amore al mio lavoro, godere della compagnia delle mie deliziose colleghe, uscire e trovare che sul termometro della farmacia sono segnati diciotto gradi, camminare piano, sentire di nuovo gli odori, salire a casa e trovarla inondata di sole e di tepore senza nemmeno aver acceso il riscaldamento, vedere il vento che scuote i panni stesi e li asciuga in un attimo.

mercoledì 10 marzo 2010

Occasione di festa numero 16.


Ve la ricordate la strategia cocoon di cui vi avevo parlato qualche settimana fa? Quel rimedio infallibile alla malinconia che consiste nell'accoccolarsi in vecchi ricordi d'infanzia finché l'umore ritorna a livelli tollerabili?
Ecco. L'altra volta ho parlato della variante Saranno Famosi, oggi vi parlo di un altra soluzione, completamente diversa.
Oggi parliamo della variante Jefferson.
Tale variante viene utilizzata nelle giornate particolarmente stressanti, in cui più della malinconia si fa sentire una certa aggressività repressa, associata a voglia di insultare e/o picchiare qualcuno.
Fortunatamente non succede spesso, ma quando succede provo la necessità di sentire un solo urlo: "Wizzieeeeeeee"! A pronunciarlo è il protagonista del telefilm I Jefferson, l'irresistibilmente arrogante George, ogni qual volta deve rivolgersi all'amata moglie Louise ("Wizzie", per l'appunto).
Ragazzi, cosa non è questo telefilm. Se non ne avete mai visto una puntata, vi consiglio caldissimamente di rimediare (su YouTube trovate un sacco di filmati su questa pagina). Gran parte della mia infanzia è legata, più che ai cartoni animati, a telefilm come questo, e mi basta vederne due minuti per fare un salto all'indietro nel tempo.
I Jefferson sono una famiglia nera di Harlem trasferitasi in un elegantissimo condominio di Manhattan dopo essere diventati ricchi, in seguito all'attività di George come proprietario di una catena di lavanderie. Le situazioni comiche, talvolta però amare, si originano principalmente dal contrasto tra la famiglia e il nuovo ambiente, a prevalenza bianca. I Jefferson non dimenticano di essere stati poveri, e tuttavia tentano di inserirsi nel nuovo contesto non senza fatica. Alle situazioni che se ne originano, spesso caratterizzate da un delizioso politically uncorrect, si aggiungono gli esilaranti siparietti tra George e la sarcastica colf Florence, che gli tiene testa con la battuta sempre pronta.
Mi piace tantissimo questo telefilm perché è intelligente, acuto, ben scritto, mai banale, e pone questioni attualissime (la prima puntata è del 1975, e sembra scritta ieri). I personaggi non sono idealizzati, anzi presentano più ombre che luci, ma è proprio questa loro umanità a renderli credibili. George è prepotente, arrogante e attaccabrighe, Florence scansafatiche e ancor più attaccabrighe del suo padrone, Wizzie, in assoluto il personaggio più positivo, è donna di gran carattere e gran cuore, incapace di sentirsi come i ricchi e aggrappata ai propri valori, e quindi l'unica in grado di ridimensionare il marito e ricondurlo a più miti consigli.
Come amo dire spesso, le cose belle, fatte con cura e intelligenza, fanno bene e alleggeriscono la nostra quotidianità. Se poi hanno il dono di farci sorridere - se non addirittura ridere - come in questo caso, è più che salutare, di tanto in tanto, riaccoccolarcisi dentro.

martedì 9 marzo 2010

Occasione di festa numero 15.

Ieri ho parlato di una cosa, oggi per coerenza devo parlare di quell'altra cosa che avevo già in mente da prima.
Questo esordio così confusionario non vi spaventi: è pienamente in linea con l'argomento di oggi.
Dovete sapere che, fin da bambina, sono sempre stata considerata una bambina tranquilla, attenta, posata - parola, quest'ultima, che detesto, in quanto più adatta a un soprammobile che a un essere umano. Già su questi tre aggettivi avrei da ridire. Anzi, avrei da ridire proprio sulle etichette: come pensare di sminuire la complessità di un individuo in poche, banali parole? Eppure si fa, e lo facciamo tutti. E' un vizio culturale, purtroppo.
Dicevamo dei tre aggettivi. Ho da ridire in quanto:
a) "tranquilla" è un concetto relativo. Esteriormente apparirò pure calma, ma dentro covo un groviglio di complessità tali da avermi mandato in esaurimento nervoso non molto tempo fa. Il progresso è stato nell'accorgermene, nel guardarmi dentro, nel conviverci. E nella ricerca di una vera tranquillità - che è ben altra cosa, e non a caso il mio blogghino è tutto dedicato a questa ricerca!
b) "posata": tanto per cominciare, che significa? Etimologicamente, indica una persona che pensa a lungo prima di agire. Vero, verissimo. Il problema è che penso troppo a lungo, e va a finire che agisco poco. Così me ne sto lì, ferma, non do fastidio a nessuno, e non sono di nessuna utilità. Se posato deve significare non esporsi, non mettersi in gioco, mostrare di se solo i lati perbene - oddio, un'altra parola detestabile - per non essere attaccabile, allora lasciamo perdere. Il coté posato io l'ho abbandonato due anni fa, quando ho capito che l'esaurimento mi era venuto anche per questa abitudine - perché alla fine si tratta di un'abitudine, di un comportamento ereditato con l'educazione, anzi per meglio dire si tratta di una eccessiva educazione.
c) "attenta": a questa definizione di me stessa credevo anch'io, fermamente. Poi poco tempo fa è successo che, mentre parlavo con una persona a me molto cara, all'improvviso non ricordavo più di cosa stesse parlando, a chi o cosa si riferisse. E mi sono detta: forse perché quando me ne ha parlato la prima volta non ho prestato la dovuta attenzione?
Da lì si è scatenato un effetto valanga: ho ripensato alla fatica immane nel memorizzare e assimilare le lezioni a scuola (e leggi una volta, e leggi due volte, e sottolinea, e rileggi sottolineato, e ripeti una prima volta guardando il libro e una seconda volta senza guardarlo); ho ripensato a come non sapevo dire il colore degli occhi di persone a me care; ho ripensato a come non sapevo descrivere il loro abbigliamento; ho ripensato a come ho sempre bisogno che mi vengano ricordate le regole dei giochi perché le dimentico appena finito; ho ripensato a come, per cucinare, devo sempre avere sott'occhio la ricetta. E un'infinità di altri esempi coi quali non voglio tediarvi.
In poche parole: ho capito che la mia è una tremenda mancanza di attenzione. Se faccio una cosa, in realtà ne ho già in mente un'altra, e tengo in piedi contemporaneamente più pensieri e/o più cose da fare. Anche questo, forse, è un vizio culturale, o lo è in parte, perché ci viene chiesto di essere veloci, efficienti, attenti. Il tempo non basta mai allora corri, corri, ottimizza!
Ci sono persone che possiedono un'elevata capacità di concentrazione, e assimilano le informazioni con uno sforzo relativo. Queste persone, di solito, fanno sempre una cosa per volta, e, spesso, la fanno con calma.
Io sono il contrario. E la fatica che faccio mi ha reso la vita molto più complicata e stancante.
Però se ne può uscire, e io, lentamente, ci sto riuscendo.
Pulire la mente dai pensieri non necessari richiede una ferrea disciplina, così come la pratica stessa della meditazione. All'inizio, facevo resistenza, senza realmente rendermi conto del perché. I pensieri inquinanti avevano il sopravvento. Poi ho imparato a prestare attenzione unicamente al respiro, e mi si è aperto un mondo. All'improvviso c'era solo il respiro che, come una brezza tesa, aveva spazzato via tutte le nebbie. I problemi hanno iniziato a delinearsi nitidi, chiari, e altrettanto chiaro è stato capire come tentare di risolverli.
Bisogna farlo ogni giorno, e non scappare se quello che vediamo non ci piace! Anzi, dobbiamo guardarlo dritto in faccia e dirgli: tu sei parte di me, e io mi prenderò cura di te. Non possiamo essere tutti buoni, perbene, posati, tranquilli, attenti: nessuno lo è e, se vuole farcelo credere, mente a se stesso prima che a noi. Meno ci accaniamo contro quella parte sgradevole, più questa si armonizzerà con le altre, e anzi contribuirà a renderci unici e speciali rispetto a tutti gli altri. Non solo: gli altri, vedendo in noi quelle fragilità, si avvicineranno a noi più facilmente perché si sentiranno meno soli, fragili imperfetti e confusi come sono anch'essi.

lunedì 8 marzo 2010

Occasione di festa numero 14.

Mentre sono qui a interrogarmi sul perché, nonostante le primule e i venti gradi di martedì scorso, ieri si sia abbattuta su Torino una discreta bufera di neve, nella mia testolina regna l'indecisione: parlo di una cosa o di quell'altra che avevo in mente?
Basta, ho deciso. Inizio a scrivere e vediamo cosa succede.
Era da un po' di tempo che volevo parlare dell'amicizia, ma l'argomento mi sta talmente a cuore, lo trovo così importante e delicato da aver quasi paura. Mi impone rispetto, partecipazione, e al contempo, paradossalmente, la giusta distanza.
Tante volte nella mia vita ho provato questo sentimento, ogni volta con grande intensità e devozione. E, quasi altrettante volte, questo sentimento si è tramutato in delusione e tristezza.
All'inizio, confondevo l'amicizia con la compagnia, o ancor peggio, con la conoscenza. Questo è un errore che si fa spesso, soprattutto da adolescenti, quando la paura della solitudine e il bisogno di essere accettati ci fanno perdere di vista la realtà delle cose e la vera natura delle persone. Alcune persone commettono questo errore anche da adulte, senza essere consapevoli dell'enorme peso che porta la frase quello è un mio amico, oppure ti voglio bene. A volte non bastano anni ed esperienze condivise a giustificarle.
E' molto difficile essere e avere amici. Dobbiamo fare attenzione alle parole, e ai sentimenti che proviamo. Non dobbiamo svenderli, né centellinarli. Dobbiamo mettere da parte l'orgoglio, la tentazione del giudizio, l'opportunismo. Saper perdonare, comprendere, immedesimarsi. Saper fare autocritica. Avere il coraggio di essere onesti e impopolari. Sapere anche riconoscere quando un rapporto è ormai sterile, perché è molto più rispettoso nei confronti dell'altro interromperlo piuttosto che trascinarlo. Ma, soprattutto, dobbiamo ascoltare la pancia, tralasciare qualsiasi spiegazione razionale: sentirsi a proprio agio, gioire della reciproca compagnia, essere complici.
Sono parole, me ne rendo conto. Parole belle, e di parole belle quando si parla di amicizia se ne sprecano. Tuttavia le parole belle si sprecano proprio perché l'amicizia è il più idealistico dei sentimenti, e deve scontrarsi con le contraddizioni e le ombre insite in ognuno di noi. E' una di quelle scintille di perfezione e bellezza che illuminano la nostra vita, una vera occasione di festa, una delle più grandi. Ci può salvare, far sentire leggeri, renderci migliori. Ma un concetto utopistico e puro come l'idea stessa di amicizia non può essere realizzato, semplicemente perché siamo imperfetti. La gioia e la bellezza sono nel tentativo fatto per renderla reale.
Queste parole le ho dette a me stessa e a voi. So di non essere capace di tanto. Ma il fatto stesso di provarci, di migliorare ciò che quotidianamente sono, ma anche di mettere in gioco tutta me stessa - e quindi anche le mie parti meno belle - mi fa sentire di vivere una vita più piena.

giovedì 4 marzo 2010

Occasione di festa numero 13.

Che gioia riascoltare dopo tanto tempo, o scoprire per la prima volta, canzoni bellissime!
Proprio io che, da adolescente, ero una purista e anche un poco snob che fuggiva come la peste tutto ciò che era un minimo orecchiabile e sereno, adesso vado cercando la musica leggera nel senso più onesto e vero del termine, quella musica che ti fa respirare a pieni polmoni, ti rasserena, ti mette in contatto con te stesso e armonizza per un attimo tutti i contrasti.
Cercherò, di volta in volta, di prendere nota di tutta quella musica bella che vado scoprendo o ri-scoprendo, ma soprattutto vorrei condividerla con voi.
Questa settimana, ad esempio, le protagoniste assolute sono state queste tre canzoni:



Non so voi, ma su questo un-due-tre mi sento già meglio. Buon giovedì sera!

mercoledì 3 marzo 2010

Occasione di festa numero 12.

Cari amici, oggi piove. Ma piove di brutto. Il cielo è total grey, un'umidissima nebbiolina nasconde tutte le cose. I mestieri - lava, stira, stendi - li ho già fatti tutti. Che facciamo?
Venite, cucinate con me! Prepariamo i dolcini più buoni del mondo.
Metto su un po' di musica anni Ottanta e ringrazio l'originalissimo sito di cucina che ogni volta mi salva la vita: http://www.misya.info, curato da una ragazza davvero in gamba che, quasi ogni giorno, propone ricette di ogni tipo corredate di foto - dall'antipasto al dolce, dalla cucina tipica italiana a quella etnica -. Le faccio volentieri pubblicità.
Mi lego i capelli, mi lavo le mani e mi metto il mio grembiulino della Trinacria: sono pronta per i muffin con gocce di cioccolato.
In primis, acquistate una scatolina di barrette Kinder da 4 pezzi. Di ciascuna barretta fate pezzettini piccolissimi: saranno le vostre gocce di cioccolato (gnam!). Per 12 muffin dovrebbero bastarne circa 70 grammi. Metteteli da parte.
A questo punto, se vi siete dimenticati di lasciare 70 gr di burro a temperatura ambiente, fatelo sciogliere appena in un pentolino, e mettete da parte anche lui.
Prendete 250 gr di farina 00 e una bustina di lievito, oppure usate la farina che lievita come faccio io, e mescolate con una bustina di vanillina (profumatissima) in una terrina.
In un'altra terrina, mescolate al burro ammorbidito 120 gr di zucchero, e aggiungete 2 uova.
Il principio è tenere separati l'impasto secco e quello umido.
Adesso versiamo l'impasto umido in quello secco e mescoliamo. No, ragazzi, quella che vi sembra malta da muratore non è il vostro impasto finale: manca un elemento fondamentale. Allora prendete 2 vasetti di yogurt bianco (io uso il Muller) e amalgamate il tutto. In questa crema paradisiaca, infine, farete tuffare i deliziosi pezzetti di cioccolato che avete preparato all'inizio, mescolando con molta grazia.
E adesso viene il bello! Mettete a riscaldare il forno a 180°... ma una cosa FONDAMENTALE, pagata in passato sulla mia pelle, è di ricordarsi sempre di settarlo in modalità statica e NON ventilata... i dolci, altrimenti, diventano reperti sumeri da datare in modalità carbonio 14.
Poi prendete 12 formine in alluminio, oppure pirottini di carta, colorati, passate un velo di burro (per non fare attaccare l'impasto una volta versato nel pirottino) e in ciascuno adagiate per poco più di metà il vostro impasto - che profumo, lo sentite?
Ultimo sforzo: infornate per 20 minuti! E cercate di non inebriarvi troppo presto per quel profumino irresistibile.
Sfornate i dolcetti paradisiaci, pulite tutto quello che avete sporcato, assaggiate... e adesso potete andare a mettervi il vostro smalto nuovo nuovo rosso fuoco! Ehm... Intendevo: POSSO andare a metterMI il MIO smalto nuovo nuovo rosso fuoco.
Alla prossima ricetta! :)
Ps: volevate sapere la colonna sonora? Anna Oxa, Riccardo Cocciante, Prince... Tutto Eighties, rigorosamente cantato a squarciagola.
Pps: aggiornamento nomi buffi. Ebbene sì, esistono in qualche parte dell'universo il signor Ghiotto, il signor Iosa, il signor Fracasso ma soprattutto il signor COGNIGNI... Se riuscite a pronunciarlo i muffin ve li cucino tutta la vita!

lunedì 1 marzo 2010

Occasione di festa numero 11.

Da quando ho iniziato la bellissima avventura della convivenza, sto imparando alcune cose.
Una di quelle che mi dà più soddisfazione, e mi riempie ogni volta di grande gioia, è prendermi cura delle piante. Quando abitavo coi miei, questo mio sopito desiderio rimaneva inascoltato, visto che mia madre ama prendersi cura solo di quelle forme viventi chiamate umani - quindi non parlatele di piante e/o animali domestici.
Ma adesso... chi mi ferma più! Anche se, come tutti i neofiti, imparo sbagliando.
Eh sì, perché purtroppo sono già rimasti indietro il mio amatissimo geranio e quel poveretto del minicactus, per la verità piegati da questo terribile inverno torinese. Tiene duro la campanula, anche se provata, la pianta grassa miracolosamente sopravvissuta a un traumatico rinvaso, e l'orchidea che, dopo un tentativo entusiasmante di nuova fioritura, è ritornata simbolicamente al suo lungo letargo, giusto per ricordarmi le sue origini - è una storia lunga, la sua, e forse un giorno ve la racconterò.
D'altronde, si sa che l'inverno è il banco di prova di molte piante, soprattutto di quelle fiorite, e tutto sommato il bilancio dei caduti non è così drammatico come avevo previsto.
Tuttavia, siccome sento già da lontano il dolce profumino della primavera, timida timida e ancora incerta, per invogliarla a venir fuori l'altro giorno sono andata in spedizione in un posto bellissimo, che adoro, che mi mette tanta serenità e voglia di cose belle anche quando fuori ci sono le nuvole.
Questo posto si chiama Viridea ed è una specie - una specie, sottolineo - di supermarket del giardinaggio, bricolage etc etc. Appena ho visto decine e decine di coloratissime primule in bella mostra davanti a me mi sono lanciata e ne ho scelte tre, piccoline e bellissime: una rossa e gialla, una viola e gialla, una fucsia e gialla. Cosa non sono, questi fiori! Appena entrate in casa, già la facevano da padrone, e i piccoli germogli hanno già voglia di fiorire. Nessun altro fiore come la primula fa sentire l'arrivo della nuova stagione: non solo per il suo nome, che dal latino primus indica appunto la sua fioritura precoce, ma anche per il fatto che le primule iniziano a fiorire quando scompare la neve, e sono quindi la degna apertura del lungo e dolcissimo periodo delle fioriture.
Vi terrò aggiornati sul loro destino. Che la primavera abbia inizio!