Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

lunedì 20 dicembre 2010

Occasione di festa numero 52.

Mi è sempre piaciuto fare fotografie, anche in tempi non sospetti. La mia prima macchina fotografica è stata una Yashica, ovviamente non digitale, che mio padre mi regalò durante l'adolescenza. Ogni foto aveva un peso specifico molto più significativo di oggi: si fotografava senza sapere subito il risultato, che poteva essere la foto della vita o un obbrobrio indecente. 
Noemi
Le foto erano poche, quindi si cercava di non sprecare l'occasione, e l'emozione di ritirarle stampate dal fotografo era pari al momento dell'apertura dei regali il giorno di Natale. Qualche anno più tardi le macchinette digitali hanno democratizzato il gesto, permettendo di verificare in tempo reale la buona riuscita della foto ma anche di realizzare migliaia e migliaia di scatti senza spendere una fortuna. La complicità indiscussa, negli ultimi periodi, dei social network, autentici contenitori di esibizionismo non solo visivo, ha decretato il trionfo popolare di questo moderno modo di fotografare, asservito alla necessità di testimoniare tutto e subito della propria vita di fronte a migliaia di persone. 
Dario
Al contempo, però, si è riscontrato un ritorno all'artisticità del gesto fotografico da parte di un plotoncino agguerrito di romantici che non solo si sono affezionati agli attuali modelli Reflex digitali, sentiti come più "professionali", ma che addirittura sono tornati alla pellicola e alla camera oscura, supporti e tecniche della fotografia analogica tradizionale. Per quanto mi riguarda, con la diffusione globale della fotografia digitale mi sono completamente disamorata del fare foto, forte della mia convinzione che una cosa, moltiplicata per milioni, non vale più nulla. 
Manuela
Ironia della sorte: ho smesso io e ha attaccato Giordano, mostruosamente appassionatosi alla fotografia tanto da regalarsi una Canon EOS 450D. Roma e Parigi, sotto il suo obiettivo, risplendevano di magia, i risultati erano davvero lusinghieri. Ho iniziato a guardare il mostro dapprima con diffidenza, poi con gratitudine per i bellissimi primi piani di cui mi omaggiava, e infine ho capitolato senza dignità tanto che, nell'ultimo anno, non una sola volta sono riuscita a strappare la creatura dalle manone protettive di Giordano.
Giordano

Così cosa ho scoperto? Che me la cavo con i ritratti. E devo essere sincera: tra i soggetti fotografici, i ritratti sono in assoluto i miei preferiti, non solo perché mi riescono bene, ma perché, nel concreto, non sono tanto diversi dai post del mio blogghino e dalle mie mille occasioni di festa. I ritratti sono racconti di storie senza parole. E per me, che amo usare le parole, scritte soprattutto, più di ogni altra cosa, è una sfida interessante, è un invito a raggiungere lo stesso risultato ma servendomi di uno strumento diverso.
Manuela, Giuseppe, Giordano, Sonia
Concretamente accade che prendiamo un essere umano, ne cogliamo le emozioni, i gesti, le ombre, l'atteggiamento, e da ciò che vediamo cerchiamo di "far parlare" l'immagine, lasciare che sia lei a dirci chi è quella persona, da dove viene, dove sta andando, cosa prova. Le immagini sono uno strumento di narrazione e di trasmissione delle emozioni, come le parole, e forse più delle stesse parole perché immediatamente efficaci, e ci permettono di rielaborare la realtà per come la vediamo, fornendone una nostra personale interpretazione.
Silvia
Con questa lunga introduzione vorrei prendere con voi un piccolo, piacevole impegno. Periodicamente, parlerò dei grandi fotografi contemporanei, da Steve McCurry a Gabriele Basilico, da Jodi Cobb a Erwin Olaf, da Malick Sidibé a Gregory Crewdson, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente. Il fil rouge sarà solamente il mio gusto personale.
Perché anche la fotografia è una bellissima occasione di festa e una significativa manifestazione artistica, dunque perché non celebrarla?
Fuor di modestia, nel frattempo godetevi qualche mio ritratto. Sono quelli che vedete qui, a inframmezzare le mie tante parole. Per ora si tratta di persone a me molto care, in futuro chissà... 
In attesa di raccontarvi dei grandi maestri, da qualche parte dovevo pur cominciare... 
Sara Giorgia... Io.
Ps mi raccomando il copyright.

venerdì 17 dicembre 2010

Occasione di festa numero 51.

Caro Babbo Natale,

di quest'anno, in fin dei conti, non posso lamentarmi troppo. La nostra nuova casetta è fantastica e soprattutto è nostra. Stiamo bene. Abbiamo passato una magica settimana alle isole Eolie, che conserviamo gelosamente per i momenti di malinconia. Ho visto dei bellissimi concerti (Carmen Consoli, U2, Samuele Bersani), ho ascoltato tanta musica, come ai bei tempi. Ho conosciuto molte persone nuove. Ma soprattutto ho ricominciato a leggere e ho capito un sacco di cose su me stessa che nemmeno lontanamente immaginavo. 
Negli ultimi mesi le cose non vanno molto bene, ma l'esperienza mi insegna a non mollare, a pensare che non sono sola, che sono parte di tutto ciò che c'è, che tutto passa, anche il dolore.
Voglio continuare a dedicarmi a questo blogghino con amore e dedizione, vedere dalla finestra ogni giorno alberi e montagne, bambini e cani che giocano al parco, continuare a essere una persona fondamentalmente buona, più onesta della media, e resistere nonostante tutto imponga di essere diversa per stare a galla in questo mondo, continuare a cucinare dolcini buoni e a curare le piante.
Però qualche desiderio ce l'ho, e, come tutti i bambini buoni del mondo, rivendico il diritto alla mia personale wishlist. In realtà sono due, una difficile e una facile. Mi affido al tuo buon cuore lappone.

Wishlist difficile

1) Vorrei trovare un nuovo lavoro. Un lavoro dignitoso ma che mi piaccia. Non voglio arricchirmi, vorrei esprimermi per ciò che sono e so fare, in modo onesto, e avere a che fare con persone oneste. Lo so cosa pensi, che questo desiderio è già molto impegnativo. Io ci metto del mio, tu del tuo e chiedi a San Culo se può partecipare pure lui.
2) Vorrei che succedesse qualcosa di molto bello, di bellissimo. A me, proprio a me. Sono molti anni che non succede. E quel desiderio lì, in particolare, quello che non ho nemmeno il coraggio di rivelare, ma che tu sai, ti prego dammi una manina a realizzarlo.
3) Vorrei fare un bel viaggio lontano da qui. Australia, Africa, India. Decidi tu.
4) Vorrei sconfiggere la bestia. Farla uscire dalla mia vita per sempre, o almeno per un bel po'. Piangere molto meno. Non sentire il suo toc toc e il suo fiato sul collo, le mani legate, le gambe che tremano. Guardarla in faccia mentre la caccio via a pedate nel culo.
5) Vorrei imparare a stare bene con gli altri, a sentirmi a mio agio, a far sentire loro ciò che ho dentro e che non riesco mai a far trasparire. Magari il blogghino può aiutare, ma solo per un 10%. Io contribuisco con l'85%, la tua incidenza calcolatela da solo.
6) Vorrei che ricominciare da capo fosse sempre più facile, che ogni sfida fosse un'opportunità.
7) Vorrei un Paese di cui andare fiera, che non prende la sua Storia e la calpesta, che ci fa desiderare di rimanere per renderlo sempre migliore ed esemplare agli occhi del mondo. Un Paese che abbia dignità e buona memoria.
8) Vorrei realizzare un mio progettino personale, ma non chiedermi di rivelare altro perché ho paura che porti male.
9) Vorrei superare alcune delle mie paure, una alla volta e senza fretta, ed essere sempre più autonoma, in tutti i sensi che la tua scatenata fantasia può immaginare.
10) Vorrei vedere serene e in salute tutte, ma proprio tutte, le persone che amo, e vedere che quella rivoluzione interiore di cui parlava Tiziano Terzani piano piano attecchisca negli animi di ogni persona che abita questa Terra disgraziata.

Ti immagino già disperato, caro vecchio Babbino. Ti sto mettendo alla prova, lo so. Ma, siccome sono buona, e vedi di ricordartene al momento giusto, ho una seconda wishlist da sottoporre alla tua attenzione. I desideri sono un po' più abbordabili, così tu sarai facilitato a fare bella figura.

Wishlist facile

1) Vorrei un animale domestico. Un gattino, o, se proprio non è possibile, un porcellino d'India.
2) Vorrei finire di arredare la casetta, soprattutto levare quelle lampadine penzolanti che urlano vendetta al buon gusto da ben otto mesi (No, dico: otto!).
3) Vorrei tornare a fare yoga e perdere quei chili che così impietosamente si sono depositati nei punti più inadeguati del mio corpo.
4) Vorrei ricominciare a guidare.
5) Vorrei potermi permettere, almeno quest'anno, di togliermi qualche piccolo sfizio: una bella borsa, un vestitino, qualche accessorio qua e là, avere i capelli un po' più sistemati, le cremine e i trucchi giusti, perché il mio animo glamourama è un po' deperito ultimamente.
6) Vorrei vedere un sacco di bei film e ascoltare tutta la musica bella che uscirà dal primo gennaio all'ultimo di dicembre 2011, non perdermi neanche un disco, ma che dico, una canzone.
7) Vorrei leggere l'ultimo libro di Aldo Nove, tutti i libri di Mario Rigoni Stern, i testi del Dalai Lama, di Thich Nhat Hahn e riprendere Calvino, Dostoevskij, Tolstoj.
8) Vorrei imparare ad attaccare un bottone e fare l'orlo ai pantaloni.
9) Vorrei piantare dei semi e vedere cosa succede.
10) Vorrei imparare a cucinare il ragù come lo fa mia mamma, sfornare dei biscottini decorati e riuscire a preparare anche solo il 5% delle ricette del libro di Eataly che mi ha regalato Giordano (1000 ricette, 5%... occazzo!!!).

Su, hai preso nota? Io ci ho messo un po' a scriverti queste due wishlist. In fondo so che a te non servono poi molto, ti basta guardare nel profondo di ognuno di noi perché, come diceva nonricordopiuchi, "i sogni son desideri... chiusi in fondo al cuor". Ma forse parlavo più a me stessa che a te, come mio solito. Scusami.

Buon Natale a tutti. Anche a te, Babbino, che lavori mentre gli altri si divertono. Almeno il contratto in regola ce l'hai?

lunedì 13 dicembre 2010

Occasione di festa numero 50.


Il re che doveva morire

Una volta un re doveva morire. Era un re assai potente, ma era malato a morte e si disperava: - Possibile che un re tanto potente debba morire? Che fanno i miei maghi? Perché non mi salvano?
Ma i maghi erano scappati per paura di perdere la testa. Ne era rimasto uno solo, un vecchio mago a cui nessuno dava retta, perché era piuttosto bislacco e forse anche un po' matto. Da molti anni il re non lo consultava, ma stavolta lo mandò a chiamare.
- Puoi salvarti, - disse il mago, - ma ad un patto: che tu ceda per un giorno il tuo trono all'uomo che ti somiglia più di tutti gli altri. Lui, poi, morirà al tuo posto.
Subito venne fatto un bando in tutto il reame: - Coloro che somigliano al re si presentino a Corte entro ventiquattr'ore, pena la vita.
Se ne presentarono molti: alcuni avevano la barba uguale a quella del re, ma avevano il naso un tantino più lungo o più corto, e il mago li scartava; altri somigliavano al re come un'arancia somiglia a un'altra nella cassetta del fruttivendolo, ma il mago li scartava perché gli mancava un dente, o perché avevano un neo sulla schiena.
- Ma tu li scarti tutti, - protestava il re col suo mago. - Lasciami provare con uno di loro, per cominciare.
- Non ti servirà a niente, - ribatteva il mago.
Una sera il re e il suo mago passeggiavano sui bastioni della città, e a un tratto il mago gridò: - Ecco, ecco l'uomo che ti somiglia più di tutti gli altri!
E così dicendo indicava un mendicante storpio, gobbo, mezzo cieco, sporco e pieno di croste.
- Ma com'è possibile, - protestò il re, - tra noi due c'è un abisso.
- Un re che deve morire, - insisteva il mago, - somiglia soltanto al più povero, al più disgraziato della città. Presto, cambia i tuoi vestiti con i suoi per un giorno, mettilo sul trono e sarai salvo.
Ma il re non volle assolutamente ammettere di assomigliare al mendicante. Tornò al palazzo tutto imbronciato e quella sera stessa morì, con la corona in testa e lo scettro in pugno.

Gianni Rodari, Favole al Telefono. Einaudi, 1962.

NB: l'illustrazione, veramente bellissima, l'ho reperita su questo blog: http://illustratissima-marilisa.blogspot.com/. Grazie fin d'ora alla sua autrice, Marilisa D'Angiò.

venerdì 10 dicembre 2010

Occasione di festa numero 49.


... e di nuovo arriva lei, bussando insistentemente alla porta. Non voglio farla entrare, resisto con tutta la forza che ho. E volete sapere cosa faccio in questi casi? Ve lo racconto.
Lei si chiama depressione. E io mi chiamo Sara, e da lei ho imparato un sacco di cose. E, quando sento il suo toc toc, e mi sento l'ultima formichina sulla Terra, calpestabile e insignificante, penso invece a quante lezioni mi ha insegnato, a come lentamente mi stia trasformando in un elefantino da guerra.
La prima cosa, per esempio, è che la crescita si conquista solo attraversando il dolore. E siccome è la più grande lezione che si possa imparare dalla vita, chapeau.
La seconda cosa è che, più lei insiste, più mi fa scoprire che "c'è tutto un mondo intorno". E' incredibile la curiosità, prima del tutto sopita, che ho nel sentire pienamente le emozioni, che ho nell'imparare cose nuove, che ho nel ricostruirmi pezzo per pezzo, tassellino dopo tassellino, che ho nel guardare al mondo, alla vita, alle persone. Questo vedermi rinascere, insomma, è la seconda grande lezione.
La terza grande lezione è l'imparare a conoscere se stessi. Non che sia cosa fatta e finita (penso non basti una vita intera), però prima non mi era mai capitato di guardarmi dentro con tanta lucidità. Avevo un'idea di me stessa completamente fuori asse: troppo indulgente in certi casi, cieca in altri, intollerante all'eccesso in altri ancora. Lei, la depressione, mi ha costretto a prendere uno specchio e guardarmi, nella brutale realtà del suo riflesso, e questa immagine così imperfetta mi ha fatto sentire meno sola perché in tanti altri e non in me, prima, vedevo i limiti con tanta lucidità. La comprensione di questa realtà è un passo fondamentale per capire gli altri e stare meglio con loro, con dolcezza e senza ipocrisie. E anche per vedere che in quello specchio è riflesso qualcosa di molto bello.
Quarta grande lezione è l'acquisire, in conseguenza alla terza lezione di cui sopra, una consapevolezza di sé in grado di farci capire cosa ci piace e cosa no, cosa ci fa stare bene e cosa no. I rami secchi, i rapporti tossici, le cattive abitudini: cause rilevanti della nostra sofferenza (anche se non le sole) al punto che, una volta individuate, farne piazza pulita sarà un dovere morale, qualcosa cioè che dobbiamo a noi stessi.
Quinta grande lezione: nulla dura per sempre. Tutto ha una fine. Quindi, anche il dolore. Spesso attendere che passi è la soluzione più saggia.
Sesta grande lezione: lasciarsi andare. Sbagliare. Sporcarsi. A tutto c'è rimedio, quasi a tutto. Preoccuparsi o non preoccuparsi talvolta fa poca differenza.
Guardare nel buco nero della sofferenza psicologica ci insegna l'esperienza del dolore, e ci insegna che si può sopravvivere. Ci insegna a non cercare palliativi, a essere onesti con noi stessi e con gli altri, ci insegna a godere delle cose del mondo. Ci disciplina, ci fa rallentare, ci insegna a non scappare. Ma soprattutto ci dice che la vita è esattamente questo, senza sconti e allo stesso tempo ricca di mille occasioni di festa.

Ps: forse è un post ripetitivo, ma serve soprattutto a me per ricordarmi chi sono, che strada ho percorso, per quale sentiero continuo a camminare. E per darmi coraggio quando mettere i piedini uno davanti all'altro sembra la cosa più difficile del mondo.


"Io somiglio a un elefante da guerra:

per quanto lo si colpisca con frecce,

esso tutto sopporta.

Così io sopporto le aspre parole

di ogni essere.

Se uno mi spezza un braccio,

la mia mente è sempre uguale,

ben disposta nei suoi confronti.

Se uno proclama grandemente

le mie virtù o un altro

i miei svariati difetti,

quelle lodi o quelle calunnie

non mutano i miei sensi.

La mia mente

è così poco contaminata

dalle offese o dalle lodi,

quanto lo è l'acqua

in uno stagno di fiori di loto" 

(Il Buddha)

mercoledì 8 dicembre 2010

Occasione di festa numero 48.

Natale, una delle più grandi occasioni di festa. Direi la Festa per eccellenza. Ogni anno rinnova il suo incantesimo, eppure ogni volta è come se fosse la prima. Le vacanze estive sono appena terminate e loro, gli ultrà del Natale, calendario alla mano, iniziano il loro conto alla rovescia, tenendo d'occhio ogni minima possibilità di ponte che possa accorciare e addolcire la lunga attesa, pensando agli addobbi per la Festa già a metà ottobre. Abbiamo un bel dire che il momento presente, che carpe diem, che vivi adesso e non pensare al futuro e blablabla... Tutti pensieri onorevolissimi che, fin dai primi di novembre, per la sottoscritta vanno a farsi bellamente benedire. 
Il profumo nell'aria cambia: è più aspro, appuntito. Gli alberi si spogliano del tutto. Le mattine sono gelide e bianche. Le giornate si accorciano. 
Eppure sembra quasi che questa Festa sia un modo dolcissimo per farci sopportare i piccoli e grandi disagi dell'inverno (che poi a molti piacciono, de gustibus), per far passare il tempo più in fretta.
Il Natale è il sabato del villaggio moltiplicato mille. E' l'attesa spasmodica delle cose belle, di un futuro che si immagina infallibilmente dorato e ricco di meravigliose sorprese. E' la riscoperta dei valori positivi, della bellezza, dei legami, delle cose importanti.
Purtroppo, tali e tante sono queste implicazioni che è facile usarle contro di noi. La follia consumistica del Natale fa leva proprio su questi sentimenti sani per spingerci al superfluo e, paradossalmente, all'allontanamento da quegli stessi valori che ne sono alla base. Il momento dell'anno più puro e carico di significati viene sverginato, umiliato, massacrato dalla nevrosi e dallo stress, dal ricorso improprio al portafoglio, dallo sperpero delle tredicesime, dal martellamento mediatico di spot farciti di un'iconografia natalizia fasulla e melensa. 
E' necessario fermarsi un attimo per capirlo, ma è possibile.
Non dico che la soluzione sia chiudersi in casa, in eremitaggio, radio e televisione spente, amici e parenti vade retro.
Però vi dico come faccio io, che secondo me è una buona quadratura del cerchio.
Fin dalla fine di ottobre riempiono i supermercati di addobbi natalizi? Rallegratevene, che esteticamente è tanto carino, ma resistete. Se proprio non ce la fate, sfogatevi acquistando una, massimo due boules de neige di dimensioni microscopiche (ogni riferimento).
La pubblicità natalizia invade il nostro mondo fin dalla metà di novembre? Ignoratela, eventualmente aiutandovi col tasto "mute" del telecomando o con le due mani sopra gli occhi (mai mentre guidate).
Le vetrine dei negozi più svariati occhieggiano dalla fine di novembre promettendo meraviglie e felicità a portata di mano? Non ci cascate. La felicità è un'altra cosa. Anche se tocca ammetterlo: le vetrine addobbate migliorano il decoro architettonico soprattutto delle città più grigie, trasformano i luoghi consueti in sbrilluccicanti pacchi regalo di dimensioni gigantesche. La bellezza non è mai sbagliata. Esageruma nen*, però (momento di personale understatement sabaudo).
Questo imperativo morale del resistere, resistere, resistere, deve essere accompagnato da un atteggiamento lucido e allo stesso tempo accorato. 
Ovvero: il Natale è un'occasione di Festa fantastica, e non dobbiamo sprecarla.
Circondiamoci di cose belle e soprattutto di pensieri belli, addobbiamo la nostra Casetta rendendola ancora più accogliente e ospitale, scaldiamoci il cuore con la semplice compagnia delle persone che amiamo, cuciniamo per loro, dedichiamoci ai regali pensando a ciò che realmente potrebbe piacere all'altra persona, curiamone noi il biglietto e il pacchettino, fermiamo per un attimo il tempo e smettiamo di pensare alle ottantamila incombenze della nostra vita quotidiana. Chiudiamo gli occhi e pensiamo a ciò che davvero conta.
Non mi soffermo sulle preziose implicazioni religiose, vero fondamento di questa occasione, perché non così brava da riuscire a parlarne, ma, come spesso amo dire, è da qui che dobbiamo ripartire. 
Non dimentichiamo mai che si tratta di un momento di raccoglimento e di celebrazione degli affetti familiari. Poi tutto il contorno, per quanto piacevolissimo, resta e deve restare una semplice conseguenza.

* Non esageriamo

venerdì 3 dicembre 2010

Occasione di festa numero 47.

Qualche sera fa, verso le nove, a Torino la debole nevicata iniziata nel tardo pomeriggio si è trasformata per mezz'ora nella "nevicata del secolo".

Fiocchi grandi come palline da golf, fitti e quasi violenti, alberi ricamati e dolcemente piegati sotto il peso del manto sempre più spesso, strade e automobili e tetti e prati e lampioni coperti da una coltre bianca abbagliante e morbida.
Ogni occasione era buona, nonostante stessi preparando la cena, per uscire sul balcone e fermarmi a osservare quello spettacolo incredibile. Non passavano automobili, il silenzio era insolito, l'aria immacolata. 
Tutto era vergine, perfetto.
E questa neve così autoritaria mi è sembrata dire: non temete, ci penso io. Laverò via tutto, ripristinerò l'equilibrio perduto, pulirò quest'aria sporca. Sono il mezzo che la natura sta usando in questo momento per dirvi che nulla è perduto, che il momento è terribile, durissimo, ma che io sono l'unica realtà importante, quella a cui tutti apparteniamo.
Poi è successo che, verso le dieci, una famigliola di mamma, papà, bimbo di quattro/cinque anni e cagnolino sono scesi al parco sotto casa, imbacuccati fino alla punta dei capelli, e hanno iniziato a giocare, a ridere, a farsi le foto. Nel silenzio irreale le loro voci ovattate sono sembrate una campana di consapevolezza, un richiamo verso la felicità, e io ho pensato che quel bambino la serata di mercoledì la ricorderà per tutta la vita.

martedì 30 novembre 2010

Occasione di festa numero 46.

Seguo Carmen Consoli da tempo immemore, da quando io e lei eravamo ancora giovani e, come si suol dire, di belle speranze. 
Mi ha fatto quindi parecchio effetto sapere della pubblicazione della sua raccolta, anche se, in realtà, di anni dal suo esordio ne sono già passati una quindicina, il che significa che siamo ben vecchie, tutte e due. Ma significa anche una grande occasione di festa, perché scorrere i titoli (ben 40) di questo album doppio intitolato Per niente stanca è stato per me un flashback travolgente, di quelli che solo la musica e i profumi sono in grado di regalare. Come dire: quindici anni di vita e di avventure racchiusi in due cd.
Al di là delle implicazioni sentimentali - e mie personali, delle quali non frega niente a nessuno - quello che emerge da questa raccolta è l'unicità e l'assoluto spessore di una cantautrice coraggiosa nel costruirsi un suo percorso di crescita artistica coerente e granitico, intelligente e mai ruffiano, soprattutto impossibile da imitare - fateci caso.

Al suo esordio infatti Carmen si è fatta apprezzare per un approccio diretto e a suo modo epico tutto giocato sulla densità interpretativa e su un uso energico delle chitarre, nonché su testi personali e di facile immedesimazione.
Era però chiaro fin dall'inizio che l'artista fosse qualcosa di mai visto né sentito prima, almeno in Italia: sul palco di Sanremo, al suo debutto, Carmen è impaurita e timida, la chitarra a tracolla, ma di impressionante efficacia all'apertura del ritornello (tra l'altro, che canzone Amore di Plastica... e che grande autore, Mario Venuti): andate a vedere il video su You Tube, a me colpisce sempre.
Ma proprio chi si era innamorato di quella Carmen ha faticato poi a digerire il suo percorso di ricerca via via più raffinato.
La furia di brani come Fino all'ultimo, Besame Giuda o Contessa Miseria aveva ammaliato in molti, gli stessi che faticavano a rivederla mascherata sotto arrangiamenti ormai privati di orpelli elettrici. Perché in realtà Carmen non è cambiata, è semplicemente cresciuta, rielaborando la realtà coi mezzi acquisiti grazie all'esperienza della vita (quindi, musicale e non solo).
Gli arrangiamenti si sono fatti stratificati, gli strumenti utilizzati sono spesso di derivazione popolare, sconosciuti ai più, ma in grado di produrre suoni assolutamente rock (vd Mio Zio). I testi, inizialmente molto personali, sono diventati gradualmente racconti di storie, soprattutto femminili, talvolta un po' contorti e artificiosi ma sicuramente frutto di una sensibilità e di una capacità introspettiva non comune (Maria Catena, Tutto su Eva...).
E che il rock sia più uno stato mentale che non muore mai che una questione di strumenti lo dimostra il rifacimento, appositamente per questa raccolta, di pezzi non recentissimi del suo repertorio che, pur rieditati dopo parecchi anni, hanno una potenza di gran lunga superiore agli originali (Eco di sirene, Besame Giuda, Contessa Miseria).
Carmen, tuttavia, conserva gelosamente, come un trait d'union che percorre tutta la sua carriera, un'attitudine delicata e poetica tanto più significativa al confronto della furia di altri brani. Mi vengono in mente canzoni incantevoli come L'ultimo bacio, Blunotte, Parole di Burro e quella meraviglia, scritta un paio di anni fa per Adriano Celentano e qui riproposta, intitolata Anna Magnani (testo di Vincenzo Cerami).
Poi ci sono le musiche da film - la già citata L'ultimo bacio, Il Pendio dell'abbandono (con Goran Bregovic), Senza farsi male (da L'uomo che ama) e Je suis venue te dire que je m'en vais di Serge Gainsbourg, da Saturno Contro - i duetti, con Battiato e Angelique Kidjo, l'inaspettata ma ottima cover di Can't get you out of my head di Kylie Minogue, i due inediti - Guarda l'alba, musica scritta da Tiziano Ferro, e l'irresistibile AAA cercasi - e tutta una serie di brani scelti con cura e rispetto, perfetti per ricostruire un percorso artistico tutt'altro che prevedibile e scontato.
La musica di Carmen mi fa sentire a casa, in un luogo dove sono capita. E' difficile da spiegare. Forse in lei rivedo, realizzato, il sogno di fare musica, il mito della ragazza con la chitarra elettrica che insegna il rock a tanti uomini, il riscatto della timidezza che diventa nuda e violenta espressività sopra un palcoscenico. Mi è piaciuto il suo modo di crescere e invecchiare, diventando sempre più bella e interessante - vista dal vivo è uno schianto -, mettendosi in discussione e mai adagiandosi, cercando sempre nuovi modi per esprimersi e percorsi sconosciuti da percorrere con curiosità ed entusiasmo.
E poi, la voce. Quella voce che da sempre divide, ma che oggi si è arrochita, è diventata ruvida, sensuale, spudorata talvolta, insomma è infinitamente più bella e interessante della sua voce degli esordi semplicemente perché è la voce di una donna che ha vissuto trentasei magnifici anni di esperienze.


«La maternità è bellissima, come minimo farò tre figli e comincerò l'anno prossimo. (...) Dal prossimo anno potrei pensarci e quando diventerò mamma finirà Carmen Consoli, perché non mi fermerò a uno. E poi i bambini, la famiglia, si devono seguire. La mia carriera non mi ha permesso di fare figli prima, il mio contratto mi vincola ancora a due dischi. Io adesso consegno il mio best e un altro album di inediti, dopodiché farò la vita di tutte le donne, perché me lo merito».*

*intervista di Giovanni Attardi a Carmen Consoli del 5/09/2010, pubblicata su Ragusanews.com, 

ps: le foto, bellissime, sono state scattate da Giordano durante la data torinese dell'ultimo tour di Carmen, Ventunodieciduemilatrenta Tour, il 15 aprile 2010.
Ogni riproduzione non autorizzata è severamente vietata.

lunedì 29 novembre 2010

Occasione di festa numero 45.

La cucina è il regno delle opportunità e delle occasioni di festa, per me.
Imparo e scopro tante cose, mi cavo fuori da momenti malinconici e complicati e soprattutto mi sento utile a qualcosa. Così, siccome la scorsa settimana è girata proprio male, e siccome per la verità era da un po' di tempo che l'idea mi frullava nella testolina, e siccome io e Jody avevamo ricevuto un graditissimo invito a cena dai nostri cari Noemi e Claudio per condividere l'attesissima finale di X-Factor (ok, lo so, ho rotto. Giuro che ho finito coi "siccome"), l'idea ha preso corpo trasformandosi nel ciambellone nutelloso detto anche ciambella Nathalie - in onore della bravissima vincitrice di X-Factor.
A giudicare dalla conta dei sopravvissuti l'esperimento è riuscito e quindi lo condivido subito con voi.
La prima cosa da fare è pulire il tavolo e piazzare sopra tutto il necessario. Che sarebbe:
1. L'attrezzo del mestiere ovvero (maliziosi) il robottino impastatore. In mancanza, ciotolone, frusta da cucina e olio di gomito.
2. tre uova
3. 100 grammi di burro fuso intiepidito
4. 300 grammi di farina che lievita oppure 300 grammi di farina più una bustina di lievito (dolce mi raccomando!)
5. 200 grammi di zucchero
6. mezzo bicchiere di latte
7. un barattolo di Nutella da 250 grammi
8. zucchero a velo
9. stampo per ciambella di diametro 26 cm
10. grembiulino e buona musica (nel mio caso, Carmen Consoli).
Et voilà:
Bando agli entusiasmi che qui c'è da lavorare.
Prendiamo il ciotolotto e ci buttiamo dentro le 3 uova e lo zucchero. Col frustino amalgamiamo sì da ottenere una spumetta dolce. 
Aggiungiamo la farina, il lievito, il burro tiepido e il latte e facciamo lavorare di nuovo i frustini.
A questo punto la base dell'impasto è finita, voi la prendete e, dopo avere imburrato e infarinato lo stampo, ve la versate livellandola, mentre già vi vedo fare gli sboroni prendendovi gioco di me forti del vostro questo lo so fare anche io.
E invece no, la cucina è come l'arte contemporanea: la rielaborazione, l'interpretazione della realtà è tutto, e mica tutti son capaci.
Così io inizio a parlare dolcemente al mio impasto, a fargli ascoltare la musica buona, accarezzo il robottino che deve fare il suo dovere altrimenti volerà dalla finestra al freddo e al gelo, inizio a blandire il forno che è il supremo signore delle ricette: dipende tutto da lui.
Comunque, dopo che l'impasto sarà pronto, prendete il barattolo della Nutella e fate ciò che di solito scatena i più mostruosi sensi di colpa: andate giù di cucchiaione grande e schiaffate la Nutella a cerchio sopra l'impasto. Per intenderci, così:
E poi, con una forchetta, girate la Nutella nell'impasto per amalgamarvela.
Alla fine, per pulire il cucchiaione, vi è concesso attingervi con voluttà autodistruttiva - vorrete mica buttare tutto quel bendidio?!?
La quantità di Nutella da adagiare sull'impasto va un po' a gusti, nel senso che se volete semplicemente variegare ne mettete pochina, se invece volete fare un ciambellone proprio nutelloso non dovete essere avari - in pratica, svuotate il barattolo.
A questo punto è tutto nelle mani del forno, vero deus ex machina della provvidenza culinaria, che andrà impostato a 180° non ventilato e che dovrà far cuocere il nostro nutellotto per un tempo indicativo di 40 o 50 minuti (dipende dal forno: voi dopo 35 minuti iniziate a far la prova dello stuzzicadenti).
Passati questi interminabili minuti lasciamo raffreddare questa bontà e la copriamo con una dolce nevicata di zucchero a velo.
Il risultato è stato leggermente croccante all'esterno e morbidosissimo, a tratti scioglievole all'interno... Insomma una roba goduriosa ma talmente impegnativa da richiedere uno stomaco quasi vuoto per apprezzarla a dovere.
Che poi secondo me al ciambellone è pure piaciuto il disco della Carmen.

venerdì 19 novembre 2010

Occasione di festa numero 44.


La mia città è Torino. E Torino, da qualche anno a questa parte, è diventata bellissima, molto più bella di quanto non lo fosse prima. Molti luoghi sono per me croce e delizia, perché suscitano ricordi svariati, e non sempre piacevoli.
A questo poliedrico elenco di posti significativi, tuttavia, da un paio d'anni se n'è aggiunto uno che ha meritato fin da subito un posto d'onore nel mio cuoricino.
Questo posto è il MAO, Museo di arte orientale.
Io e Giordano ci andiamo spesso, almeno un paio di volte l'anno, e, se ce ne capita l'occasione, gli facciamo un sacco di pubblicità in giro e ci portiamo quanta più gente possibile, che puntualmente ne rimane entusiasta. Perché il MAO è un gran bel posto, un posto dove si sta bene, ci si rasserena, si vedono moltissime cose belle.
Il museo è allestito all'interno di un edificio del Seicento, Palazzo Mazzonis, che si trova in via San Domenico, pieno Quadrilatero Romano. Il quartiere, che da una decina d'anni è il cuore della vita notturna della città, fa da cornice straniante a questo luogo quieto, un'oasi di raccoglimento e di decompressione rispetto al frenetico brulicare dei forzati dell'aperitivo-cena-dopocena. In realtà il museo è aperto fino alle 18, ma il suo cancello d'ingresso promette continue meraviglie grazie a una feritoia strategica di forma circolare che, a qualsiasi ora del giorno e della notte, permette di sbirciare all'interno: i curiosi si troveranno così di fronte la visione di un lungo corridoio, fiancheggiato da due splendidi giardini zen, coronato da una statua del Buddha di incredibile bellezza.
Quest'immagine non può che essere, per i cuori sensibili, un forte richiamo, ed è anche l'antipasto di ciò che si potrà trovare all'interno, sia a livello di qualità delle collezioni, provenienti dal Museo di arte antica di Torino, dalla Regione Piemonte e dalla Fondazione Agnelli, sia per quanto riguarda l'allestimento, davvero magnifico nella scelta dei materiali, dei colori, della collocazione dei reperti, dell'illuminazione, dei pannelli esplicativi e dei punti informativi touch-screen, facili da usare anche per un'imbranata come la sottoscritta.
I percorsi espositivi sono sette, tematizzati geograficamente, ovvero Gandhara, India, Sudest asiatico, Cina, Giappone, Himalaya e Islam, e la visita richiede più o meno un paio d'ore - posto che gli dedichiate il giusto tempo, ça va sans dire!
Al MAO ci andiamo ogni volta che sentiamo il bisogno di serenità e di cose belle, e il fatto che sia un gioiellino nuovo di zecca della mia città mi rende particolarmente orgogliosa. 
Se ci fate un salto, dite che vi mando io.

giovedì 18 novembre 2010

Occasione di festa numero 43.

Gliel'avevo giurata, a quell'armadio mastodontico. Con occhi di bragia, gli dissi: tu, con le tue quattro ante gigantesche, presto sarai sistemato a dovere. Così, in un triste lunedì di pioggia, mi sono armata di scaletta-profumatori-grucce-scatole-postit-bacinella-sgrassatore-swiffer-vetril e ho dato il via all'operazione cambiodistagione.
E pensare che l'armadio quattrostagioni l'avevo scelto apposta, per ridurre al minimo l'impaccio. E invece, per vostra informazione: non serve a un bel niente, anzi! Vi fa lavorare il doppio.
La prima dolorosa scelta è: comincio da destra o da sinistra? Neanche da chiederlo.
L'anta sinistra propone due bastoni appendiabiti sovrapposti. Tiro giù tutto e butto sul letto così, ad minchiam. Amici, la prima cosa da fare in questi casi è chiedersi: tengo tutto? Butto qualcosa? Regalo qualcosa? La risposta è impegnativa, perché implica che vi mettiate davanti allo specchio, pazienti, e verifichiate la mettibilità o meno di ciò che vi sta di fronte. Piccolo aiuto: se un abito non lo mettete da più di due stagioni, avete due opzioni. 1) se è in buono stato, regalatelo a chi ne ha bisogno. 2) se è ridotto a una schifezza, inceneritelo.
Diamogli due stagioni di possibilità, a questi abiti. Magari una stagione li ignoriamo perché siamo scoffate paurosamente, oppure perché siamo depresse e i colori non li sopportiamo, o viceversa perché di nero e blu non ne possiamo più. Però potrebbero misteriosamente ripiacerci, la stagione dopo, e sarà come avere dei vestiti nuovi di zecca! Ma se per due anni li lasciamo impolverare solamente, la risposta è già dentro di voi.
Fatta questa dolorosa scelta, che è importante perché determinerà tutta l'architettura interna del nostro armadio, è fondamentale dare una vigorosa pulizia a bastoni e ripiani, togliere i vecchi profumatori e prepararne di nuovi, spazzolare e imbustare le giacche, lavare e stirare gli abiti estivi da mettere via negli scatoli. Poi io, per esempio, nell'anta sinistra sistemo anche le mie numerose borse borsette e borsettine, che dovrebbero essere anch'esse accuratamente selezionate, pulite con un panno umido e messe via sempre nei simpatici scatoli.
Scatolo, scatolotto mio. Sì, è in questi termini che dovete rivolgervi a lui, perché lui sarà il vostro più prezioso alleato. A braccia aperte saprà accogliere ciò che non volete più davanti, lo terrà fermo, lo conserverà gelosamente per i vostri utilizzi futuri. Io ne ho diversi, tutti colorati, e ciascuno dotato di postit-etichetta che indica il contenuto (... ecco a cosa servivano i postit). Li potete abbinare a loro volta, per dare un tocco creativo di colore anche al didentro del vostro bell'armadio.
Ripiani e cassetti sono l'ostacolo successivo. Ma sono oggetti, amici, quindi non dobbiamo temerli. Anzi sappiatelo: loro sono al nostro servizio, e noi li dobbiamo piegare alla nostra volontà. Allora prendiamo coperte, copertine, plaid, lenzuola, asciugamani grandi, asciugamani piccoli, strofinacci, teli da mare, e in prima fila maglie maglioni felpe etc etc. e disponiamoli con calma serafica su tutti i ripiani di cui disponiamo. Poi viene il momento che più a lungo abbiamo temuto. Perché i cassetti sono come l'antro del demonio: non sai mai cosa nascondono. Allora noi li rivolteremo come un calzino suddividendo maniacalmente lo spazio interno, debitamente sostenuti da due capisaldi dell'organizzazione dello spazio quali Muji e Ikea (sì, faccio pubblicità: e allora?). Alla fine del lavoro, l'interno dei vostri cassetti ostenterà una perfezione, una simmetria, una pulizia formale che neanche gli origami. Quindi concentrate tutte le vostre forze in questo momento topico.
Quando l'ultima gruccia è sistemata, chiudiamo l'armadio: abbiamo finito!!!
Grondanti sudore, guarderemo il nostro nemico con lo stesso sguardo del generale che ha condotto vittoriosamente i suoi uomini alla conquista di una nuova terra.
Nessuno oserà più fermarci.
Quindi siete avvisati, voi mobiletti del bagno: al prossimo giro siete finiti.

martedì 16 novembre 2010

Occasione di festa numero 42.


Ve lo ricordate, ho ricominciato a leggere (vd. Occasione di festa numero 39).
E, se avete imparato a conoscermi almeno un pochino, intuirete anche che, una volta che mi metto in moto vincendo la mia proverbiale lagnusìa, non mi fermo più.
E infatti la scorsa settimana, appena risistemato sullo scaffale il libro del Dalai Lama, mi sono piazzata davanti alla libreria in cerca del degno successore.
I grandi russi? No, basta, già dato.
Filosofia orientale? No, a questo giro salto.
Poi lo vedo. Piccolino, bianco bianco, elegante essenziale Einaudi. La sua discrezione tipicamente sabauda lo rendeva quasi invisibile in mezzo agli altri ma è stato proprio questo a incuriosirmi, e così, tempo un secondo, Stagioni di Mario Rigoni Stern era già nelle mie paffute manine.
E' stata una delle sue ultime opere, ma per me, che non lo conoscevo, è stata la prima.
In realtà avevo già letto il libro tre anni fa, ma non l'avevo capito. O, per meglio dire, non l'avevo sentito. Perché il fatto è proprio questo: un'opera di questo tipo va vissuta con intensità, partecipazione, abbandono. E allora non lo sapevo fare, o non ne avevo ancora bisogno. Mi piace però pensare che il destino abbia visto più lungo di me, e mi abbia fatto scegliere questo libro sapendo già che un giorno sarei stata pronta.
In ogni pagina di Stagioni c'è scritto VITA a caratteri cubitali.
Io che amo segnare a matita i passi che mi piacciono di più, per poi ritornarci ogni volta che ne sento il bisogno, sto scarabocchiando questo libro in modo quasi irrispettoso, ma quanto amore c'è in ogni sottolineatura!
Amo il modo in cui parla degli alberi, delle specie animali, dei fenomeni atmosferici. Amo la densità della sua scrittura, il forte peso specifico di ogni parola, la dignitosa asciuttezza dell'uomo di montagna, la dolcezza inaspettata. E poi quanta competenza, e quante parole nuove, che non avevo mai sentito.
Mai mi era capitato di emozionarmi tanto per un'opera di narrativa.
Piccola piccola, leggera come una foglia autunnale, ma che solo un uomo grande grande poteva scrivere.


"Le prime allodole arrivavano quando il sole nella sua risalita rendeva libere dalla neve le rive esposte a sud. Un mattino sentivi un brivido percorrere le membra, vedevi uno svolare sopra la proda e dopo il trillo gioioso dell'allodola mattiniera. Era un attimo di felicità. Ma da dove arrivava questo intenso sentimento? Da quale remotissima mattina del mondo? Era bello quel giorno, era bella tutta la terra, era buona la gente."

sabato 13 novembre 2010

Occasione di festa numero 41.



Suu Kyi libera: saluta la folla festante

Soddisfazione Gb e Francia, Amnesty 'liberi tutti i prigionieri'

13 novembre, 14:07

(ANSA) - ROMA, 13 NOV - "C'e' un tempo per il silenzio e un tempo per parlare": cosi' Aung San Suu Kyi, la leader democratica birmana tornata oggi in liberta', si e' rivolta alla folla festante che la aspettava davanti casa. Londra e Parigi hanno manifestato soddisfazione per la liberazione della dissidente birmana mentre Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International ha dichiarato che 'il rilascio di Aung San Suu Kyi non deve far dimenticare gli altri (oltre 2200) prigionieri di coscienza''.

mercoledì 3 novembre 2010

Occasione di festa numero 40.



Dalla notte che mi avvolge
Nera come la fossa dell'Inferno
Rendo grazie a qualunque Dio ci sia
Per la mia anima invincibile


La morsa feroce degli eventi
Non m'ha tratto smorfia o grido
Sferzata a sangue dalla sorte
Non s'è piegata la mia testa


Di là da questo luogo d'ira e di lacrime
Si staglia solo l'orrore della fine
Ma in faccia agli anni che minacciano
Sono e sarò sempre imperturbato


Non importa quanto angusta sia la porta
Quanto impetuosa la sentenza
Sono il padrone del mio destino
Il capitano della mia anima.


William Ernest Henley, Invictus (1875).


NB: La poesia è citata nel film del 2009 Invictus - L'invincibile di Clint Eastwood. Viene infatti usata da Nelson Mandela (Morgan Freeman) prima per alleviare gli anni della sua prigionia durante l'apartheid e poi per incoraggiare il capitano della squadra sudafricana di rugby François Pienaar (Matt Damon). 
Da Wikipedia

martedì 2 novembre 2010

Occasione di festa numero 39.

Questa sera cari amici la mia occasione di festa è piccola piccola ma molto significativa.
Dopo molto tempo sono riuscita a terminare un libro. Eh! Direte voi. Capirai che risultato. E invece no perché per me questa cosa era diventata impossibile più o meno dal momento in cui mi sono laureata.
Io la chiamo la teoria dell'overload, del sovraccarico.
In pratica durante gli anni dell'università mi sono data alla lettura matta e disperatissima di decine e decine di libri, spesso più per necessità di preparare gli esami di letteratura, e quindi per obbligo, che per reale piacere. Avevo sempre adorato leggere, oltre che scrivere, ma converrete con me che inocularsi Guerra e Pace nel tempo record di due mesi non fa bene all'anima. Piace, ma è immorale. Se a ciò aggiungete l'opera omnia dell'amato Dostoevskij, e Cechov, e Bulgakov, e duemila autori russi e polacchi minori, e tutti i relativi saggi critici e antologie letterarie e tomi di storia nel giro di cinque anni, il quadro della mia situazione cerebrale è completo.
Mettiamola così: è stato un modo per non volersi bene.
Opere meravigliose, ricche di significato, profonde come un fiume che scorre lento, ma svilite, violentate dalla fretta, dalla necessità di assimilare tutto in poco tempo.
Per non parlare della formazione di un gusto talmente raffinato ed elevato da farmi schifare ogni altra opera letteraria che mi capitava sotto tiro.
Ebbene sì, lo confesso, anche se per tanto tempo mi sono vergognata anche solo ad ammetterlo: per cinque anni ho letto solo riviste e quotidiani.
La mia mente era stata come brutalizzata da quell'eccesso di informazioni e ricercavo disperatamente la semplicità, anche la banalità talvolta.
Due anni fa ho letto ad alta voce Firmino di Sam Savage. Carino, ma nulla più. I fantasmi dei grandi vecchi della letteratura russa stavano lì a ricordarmi che meglio di loro non c'era nessuno. Mi sono di nuovo scoraggiata e ho passato altri due anni di disintossicazione.
Poi, grazie a Giordano, ho preso in mano L'arte della felicità. Si tratta di conversazioni tra il Dalai Lama e lo psichiatra Howard C. Cutler. Ho iniziato a leggerlo nel tragitto casa-lavoro, poi 
nelle pause al lavoro, poi prima di andare a letto. 
Mi ha conquistato.
Così ieri sera, dopo tre mesi di lenta, paziente, cosciente lettura l'ho terminato.
Ero davvero felicissima e non vedevo l'ora di condividerlo con voi!
Vi terrò aggiornata sui prossimi libri che riuscirò a leggere.

martedì 26 ottobre 2010

Occasione di festa numero 38.

Superare se stessi è una delle regine delle occasioni di festa. Lo si può fare in tanti modi.
Io, per esempio, ho da sempre un problema: sono confusionaria e pasticciona. Lascio le cose in giro, accumulo, non so mettere ordine. Non che sia sporca, intendiamoci. Anzi: il dna materno qualche suo peso ce l'ha, e il mio minimo sindacale è già superiore a quello di molta gente (constatato sulla mia pelle, purtroppo).
Il fatto è che faccio proprio fatica, mi costa uno sforzo immane coordinare le forze fisiche e mentali per fare quelle robe lì.
L'altro giorno, però, vado in giro per casa e inizio ad aprire armadietti, ante, cassetti. Una cosa indegna. Oggetti buttati alla rinfusa, senza senno, sovrapposti gli uni agli altri, e - cosa peggiore - oggetti che neanche ricordavo di avere nascosti sotto cumuli informi. E che magari mi servono! Vi tralascio lo spettacolo pietoso di armadio e scarpiera. Gli mancava solo il dono della parola.
Mi son detta: Eccheccazzo (sic) Sara, così non si può.
E così, in preda a cinque favolosi minuti di energia, mi sono ripromessa di farcela: da sola, senza l'aiuto di nessuno.
Casetta, mi hai provocato. E io non vedo l'ora di accettare la sfida.
Il grosso è iniziare. Fisso il blocco cucina con aria concentrata, e apro il primo cassetto, quello grande. Per motivarmi metto su One shot 1991. Tiro fuori, sposto, pulisco, aspiro la polvere, vetril, smac, ah ti sistemo io maledetto cassettaccio. Dopo 20 sudatissimi minuti, guardo il risultato: sono quasi commossa. Allora il concetto di ordine c'è, esiste nella mia mente, a un livello molto profondo, subconscio, ma c'è. Non solo gli oggetti sono ordinati, ma si vedono, palesano per la prima volta la loro natura, mi guardano riconoscenti: grazie per averci ridato la dignità.
La mia autostima è a mille. Vado avanti. Nel giro di mezza giornata tutte le ante, i cassetti e persino la dispensa sono ricondotti all'onore del mondo.
Penso con emozione all'indomani in cui ti sistemerò, sgabuzzino intrigante.
Mi presento puntuale e parto all'attacco della scarpiera. Già aprirla è una sfida all'umano intelletto, nonché, soprattutto, agli umani sensi. Infatti: a) il profumatore d'ambienti non funziona più (maddai?!?) e b) sono forse scarpe, quelle?
La prima cosa da fare è tirarle fuori di lì. Poi prendo una bacinella piena di acqua calda, la riempio di sapone neutro, e armata di panno giallo mi dedico con abnegazione a infradito, sandali e soprattutto alle ballerine maledette, la specie più temuta. Ragazze so che sapete di cosa parlo. Basta un giorno senza calze e quelle ingrate restituiscono il peggiore odore che si possa immaginare, anche se vi lavate i piedini tutti i santi giorni e vi mettete la cremina al mentolo. Eh!
Qui avevo agito per tempo però: terminata la stagione estiva, le avevo prese e messe sul balcone a sfiatare. Non è stato risolutivo, ma quantomeno ha tamponato.
Insomma: una volta pulite e tornate a essere ciò che realmente sono, le ho prese, infilate negli appositi sacchettini di stoffa (ve li consiglio! Molto meno ingombranti di scatole e scatoline), riposte in una scatola grande di colore rosa che precedentemente conteneva le scarpe invernali, ho cambiato l'etichetta in scarpe estive et voilà! Nell'armadio, fuori dalle balle.
Le scarpe invernali, a loro volta, dopo aver rivisto la luce, sono state selezionate, pulite e sistemate nella scarpiera, dove ho appiccicato un fichissimo profumatore al muschio bianco - che cambierò un po' più spesso, onde evitare l'originarsi di altre fdv...
Il resto è storia: gli scaffali del ripostiglio sono stati sottoposti a un restyling totale, scatole che volavano dappertutto, io in bilico su una scaletta mefitica, polvere e quindi tosse tosse tosse ma una incredibile sensazione di libertà, un po' come le tecniche di visualizzazione yoga in cui ti liberi delle cose negative immaginandole sotto forma di un fumo nero che fuoriesce dal tuo corpo.
Ma questo è niente, dear friends: è stata già pianificata l'operazione Cambiodistagione che richiederà il concorso di tutte le mie facoltà fisiche e mentali. Ve ne renderò conto a tempo debito.
Dunque, tornando a noi: credete di non farcela? L'autostima scende a livelli infimi? Partite dalle piccole cose come queste, misuratevi con voi stessi. Disciplinatevi a cambiare prospettiva, a eliminare le cose (e i pensieri) inutili. E metteteci tanta tanta, tantissima ironia.
It's all about attitude.