Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

lunedì 31 gennaio 2011

Occasione di festa numero 59.

Occasione di festa numero 59 è stare qui, delusa, arrabbiata ma ostinatamente serena e lucida, e perdermi nella musica, odorare di buono e scrivere, con Giordano nell'altra stanza e mille belle parole nella testa. Ogni tanto sento il bisogno di frenare e fare il punto, interrompere la bellezza delle passioni e guardare dritto in faccia l'enorme muro delle cose reali. Chiudere la giornata col pensiero di avere fatto qualcosa di buono, questo mi manca da un po'. Ma lotto e mi impegno perché questo avvenga.
Amici cari, ve lo dico con tutto il mio cuore, senza svenevolezze, con generosità: difendete le occasioni di festa della vostra vita, a dispetto di tutto ciò che avviene al di fuori, strappando con i denti scintille di luce da giornate che sembrano buie. 
E' solo questione di esercizio.
Dalle scintille al sole pieno è solo questione di muscoli. Ad aspettare che giri giusta abbiamo tempo di diventare cenere.

mercoledì 26 gennaio 2011

Occasione di festa numero 58.

Florence and the Machine. Lungs. Nel mio iPod suona parecchio, e qualcosa vorrà pur dire. Certo, lei è strana. La voce, all'inizio, non piace granché. Le canzoni sembrano tutte uguali. Epiche, leziose, ridondanti. C'è persino l'arpa. I video sono bizzarri, talvolta morbosi. Squinternati forse è il termine giusto. Ecco: diciamo squinternata e la inquadriamo lì. 
Però perché quando passano le sue canzoni le ascolto? E i video, cos'avranno mai di così interessante da farmi fermare ogni volta a guardarli? Poi un giorno sento una canzone: si chiama Dog days are over. Parte piano piano, c'è una bella base ritmica con tanto di clap clap, e poi esplode, diventa convulsa, e la voce imperiosa, una canzone che cresce cresce cresce e poi non ti molla più, la devi ascoltare e riascoltare e incredibilmente non ti stanca mai. Ti intossica. Eppure c'era l'arpa, com'è possibile. 
La spiegazione è semplice: un artista non vale nulla se non ci sono le canzoni. E se ci sono, anche l'artista apparentemente più lontano dal nostro mondo ha qualcosa da insegnarci, può condurci in un mondo che non conoscevamo e di cui, magari, ci innamoreremo perdutamente.
Ecco, adesso avete capito cosa è successo con la musica di questa artista londinese, classe 1986, fantastici capelli rossi, gambe lunghe e viso quadrato, partita ovunque in sordina e poi consacrata definitivamente dalla incredibile esibizione agli ultimi MTV Video Music Awards - in cui dev'essere sembrata un'aliena, anche solo per il fatto che a) la canzone era una gran canzone; b) l'esibizione era artisticamente strutturata, con una bellissima coreografia e c) ha colpito nel segno con classe ed eleganza in una serata in cui Lady Gaga se n'è arrivata con una bistecca in testa (che poi mi sta pure simpatica, Lady Gaga. Però...).
Così si entra nel mondo di Florence Welch e della sua band: in punta di piedi e con la puzza sotto il naso. Un passettino in più, e scatta l'assuefazione. Perché, se è vero che le origini sono indie-cantautorali - un po' Kate Bush, un po' Sinead O' Connor, un po' Fiona Apple - in realtà il progetto è semplicemente pop, arioso, a volte forse iperprodotto e "leccato" (da lì quella sensazione di ridondanza e di leziosità), però scava scava le melodie ci sono, e soprattutto c'è la gran voce di Florence, espressiva, esplosiva e direi persino soul. 
E i testi? I testi sono cupi, morbosi, carnali. Fin dal titolo (Lungs: polmoni) e dalla copertina, si parla di corpi, labbra, occhi, cuore, mani, organi, respiro, morte, amore, muscoli, senza mezzi termini ma anche con ironia tipicamente british. Ironia che le permette infatti di alleggerirsi, tanto che chi non conosce l'inglese, e ascolti semplicemente la musica, avrà l'impressione di essere immerso in un sogno pop celestiale e rarefatto, direi anzi luminoso.
Tredici canzoni come tredici perle di un'unica collana: dalla già citata Dog days are over, che apre le danze egregiamente, alla intensa Girl with one eye (che a me ricorda l'amatissimo Jeff Buckley, e credimi Florence, non potevo farti complimento migliore), passando per la cupa ed epica - vedere il video - Drumming song, fino alle splendenti Cosmic Love, davvero un sogno scintillante, e Hurricane Drunk, solo per citare le canzoni dell'album che ascolto e riascolto più volte senza mai stancarmi.
E credetemi, in un iPod che contiene più di tredicimila canzoni riuscire a calamitare la mia curiosità per più di una settimana non è cosa facile. Musicalmente parlando, sono una gran rompicoglioni.

lunedì 24 gennaio 2011

Occasione di festa numero 57.

Steve McCurry: vita, Storia, immagini.

Lo scorso Natale ho regalato a Giordano un libro davvero splendido, edito da Phaidon: Ritratti, di Steve McCurry. Ora, non a tutti dirà qualcosa il nome di questo fotografo ma, guardando le decine di libri in esposizione quel giorno, nessuno sarebbe potuto rimanere indifferente a quella copertina: il ritratto di Sharbat Gula, la ragazza afghana, con la sua dignità e timidezza, il velo lacero, e quei bellissimi occhi di ghiaccio dall'espressione atterrita e triste, è una delle immagini fotografiche più famose al mondo, un'icona triste del Ventesimo Secolo paragonabile, per forza ed enigmaticità, alla Gioconda leonardesca. E' una foto che tutti hanno visto, almeno una volta nella vita, e già da sola basterebbe a raccontare del suo autore, senza troppi giri di parole. Ma questo è un blogghino, ed è fatto di parole. Quindi, sorry Steve: sei tu il prescelto per inaugurare la mia modesta rubrica di fotografia. Perché la fotografia è una bellissima occasione di festa.
Chi è Steve McCurry? 
Steve McCurry, nato a Philadelphia il 24 febbraio 1950 (Pesci, aggiungo anche), è considerato uno dei maggiori fotogiornalisti viventi: ha infatti legato la sua fama ai rischiosi reportage in Afghanistan, i primi dei quali realizzati poco prima dell'invasione sovietica. Dopo la prestigiosa Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad approda a National Geographic, rivista di cui è unanimemente considerato il fotografo più significativo. 
E' infatti del 1985 il ritratto di Sharbat Gula, la piccola orfana di Peshawar: sarà la più famosa copertina di National Geographic in tutta la sua storia. L'anno successivo entra a far parte della scuderia Magnum Photos, mentre i premi si susseguono, così come i reportage nei luoghi più martoriati del pianeta: l'Iran, l'Iraq, l'ex Jugoslavia, Beirut, la Cambogia, le Filippine, la Guerra del Golfo, l'amatissimo Afghanistan, fino all'attacco alle Twin Towers a cui lui, newyorkese, si trova ad assistere appena tornato dal Tibet. Per National Geographic ha realizzato servizi in Tibet, Afghanistan, Burma, India, Iraq, Yemen, nonché sul Buddismo e sui templi di Angkor Wat.
I Ritratti editi da Phaidon sono una raccolta e una testimonianza di trent'anni di straordinaria carriera, un'avventura in cui il viaggio è la mèta stessa. Pur considerandosi - ed effettivamente essendo - un reporter, McCurry dispone dell'innata capacità di entrare in empatia coi soggetti che poi andrà a ritrarre, e che per lui sono le pagine non scritte del grande libro della Storia. 
Nell'attimo fugace dello scatto fotografico, che demanda al reporter tecnica, intuito, audacia e capacità di cogliere l'attimo, il soggetto rivela se stesso in modo totale, quasi fosse conscio del poco tempo a disposizione e dell'enormità, dell'urgenza, del messaggio da trasmettere al mondo. In questo modo, Sharbat Gula diventa il simbolo della povertà, della paura, ma anche della dignità delle donne afghane durante gli anni terribili del conflitto, così come ciascun altro soggetto ritratto racconta al contempo la propria storia e quella del proprio Paese, o semplicemente del proprio mondo.  
I bambini e le donne sono i suoi soggetti favoriti, e colpisce la delicatezza dello sguardo del fotografo, rispettoso e discreto ma aperto, in un modo magico e complice, e conseguentemente la spontanea disponibilità di chi viene ritratto, spesso sorridente pur in situazioni drammatiche. 
McCurry non è un purista della fotografia, e sinceramente sorprenderebbe il contrario, considerate le situazioni in cui spesso si trova a dover scattare, e tuttavia mantiene sempre ferma una padronanza tecnica che gli fa ottenere pregevoli risultati pur nell'urgenza del momento. Si è recentemente convertito al digitale, e la sua strumentazione professionale si limita spesso a due soli apparecchi Nikon. L'uso della luce e del colore è completamente naturale, tanto che non esistono foto di McCurry in bianco e nero: "la realtà è colorata e a me piace rappresentarla così come la vedo". 
Poesia, azione, audacia, cuore, testa, tecnica, reattività, incoscienza: dovessi descrivere sinteticamente la fotografia di Steve McCurry, userei queste parole. O meglio ancora: mostrerei a chi non lo conosce i suoi ritratti. Quello di Sharbat Gula, soprattutto.

PS: nel 2002 McCurry tornò in Afghanistan a cercarla. E la trovò, fotografandola ancora dopo diciassette anni.

mercoledì 19 gennaio 2011

Occasione di festa numero 56.

Sì, lo so che poi pensate che parlo sempre di me, delle mie cose etc etc, ma ragazzi questo è il mio blogghino, è casa mia, se non lo faccio qui dove? E soprattutto, cari: lasciate che sia io a far brutta figura raccontando delle mie cose: a voi rimarrà la morale della favola, che è ciò che più conta. 
Dunque. Stamattina ho avuto un forte flashback degli anni del liceo. A riguardarli adesso, sono stati anni strani, sicuramente anni che non mi sono goduta abbastanza ma che mi hanno anche fatta diventare quello che sono ora. Quindi, esperienza: prendi e porta a casa. Così mi sono ricordata di aver sempre avuto un rapporto non bellissimo coi miei compagni di classe. Non con tutti, ovviamente. Molti mi ha fatto piacere reincontrarli su Facebook, per esempio. Con altri ho qualche problema in più, e il solo suono dei loro nomi e cognomi mi fa sommuovere le interiora.
La cosa fondamentale, però, è che con tutti, belli e brutti, non sono stata me stessa. Non fraintendete: ero sincera, ma non ero io. Come ho detto in qualche post fa: non era la mia voce quella che usciva, ma una voce contraffatta per piacere agli altri, bloccata da mille paure, la voce di una ragazza timida con il terrore di rimanere sola e dunque disposta a snaturarsi oltremodo. Poi c'era un altro côté, più brutto, fastidioso. Alcuni compagni mi hanno preso un po' di mira, in certi momenti. Forse allora (e neanche adesso, who knows?) non ero né bella né simpatica, ma finché vivrò mi risuoneranno nelle orecchie certe frasi, certe considerazioni, certi atteggiamenti gratuitamente malvagi. Sì sì malvagi, è la parola corretta, perché nulla giustifica il disprezzo e la mancanza di rispetto. Non penso di essermelo meritato, per dirla breve. Come nessuno se lo merita, a meno che non la combini proprio grossa. Risatine, parole dette dietro le spalle, dispetti. Sono cresciuta, ma non dimentico ragazzi.
Però di quelle parole e di quei gesti, che tanto mi hanno ferita, ho fatto tesoro. 
Ho smussato il mio carattere e ho cercato di aprirmi, inciampando sbagliando e facendo autocritica.
Ho iniziato a curare il mio aspetto, fino al punto di essere io quella che dà consigli su abiti  trucchi e cremine.
Ma soprattutto, e questa è la mia personalissima occasione di festa di oggi, ho capito. Non lo nego: in certi momenti sono arrivata a odiare quelle persone che - erroneamente - vedevo come responsabili delle mie ferite e della mia scarsa autostima. Fino a non molto tempo fa. Però sono cambiata, e ho capito due cose, o forse addirittura tre. 1. che la responsabilità della nostra vita è solo nostra, e che, per quanto sul nostro cammino possiamo incontrare persone negative, o problematiche, è solo questione di continuare a camminare, affrontando il dispiacere ma imparando la lezione. E' molto più comodo sobbarcare ad altri, specie se non ci piacciono, la responsabilità dei nostri problemi. 2. che, quando una persona ti fa del male, lo fa perché la prima persona a soffrire è proprio lei. E non c'è niente da invidiarle, anche se è una delle persone più "popolari" (tremendo, l'ho detto, ma non mi veniva un sinonimo altrettanto efficace) della classe o se tutti le vogliono bene e proprio tu non riusci a trovare un motivo valido per farlo. Ho capito che forse, dietro certe parole, c'era rabbia repressa che aveva solo bisogno di un capro espiatorio. Oppure che, dietro certi comportamenti, c'era soltanto qualcuno che, con la mia stessa scarsa autostima, la risolveva mettendosi sulla scia del più forte per non soccombere. E infine 3. al di là del nostro carattere e del nostro essere più o meno sfigati, influisce molto ciò che possediamo ed esibiamo, soprattutto se si tratta di una bella casa o, peggio ancora, di un genitore che fa un lavoro prestigioso. Questo l'ho capito "da grande", però, quando ho iniziato a capire certe persone. Io non mi sono mai vergognata - e mai lo farò - dei miei genitori, ma forse qualcuno si vergognava di frequentare quella che allora era la figlia della portinaia - ops, custode, scusa mamma, hai ragione poi ad arrabbiarti - che neanche aveva una sua cameretta ma solo angoli rubati alle stanze di una casa troppo piccola.
Detto questo, e tornando alle simpatiche persone, non giustifico: capisco. E mi sono resa conto che il concetto di perdono inizia proprio da queste piccole grandi cose, che sono il nostro mondo, e che influenzano la nostra quotidianità. Voglio disfarmi di sentimenti negativi e distruttivi, non voglio più dire o pensare di una persona che la odio. Perché la rabbia e il rancore ti mangiano dentro, non ti fanno crescere. Ti bloccano in un'istantanea di commiserazione e autocompiacimento che non ti fa vedere più in là del tuo nasino, e ti dà sempre l'alibi per non prenderti le tue responsabilità.
E allora io vi ringrazio, cari "nemici" degli anni del liceo.
E' anche grazie a voi che sono cresciuta. 
Se vi incontro, però, non garantisco né il saluto né l'entusiasmo nel rivedervi. Cercate di capirmi - e perdonarmi - anche voi, dopotutto.

lunedì 17 gennaio 2011

Occasione di festa numero 55.

Hereafter, visto l'altra sera, in una suggestiva notte di nebbia torinese, è un film che parla di morte. Ma delicato, dolce, umano, in un modo da farci lasciare la sala cinematografica con un senso di leggerezza, con una luce negli occhi, con un desiderio di vita molto forte.

E' già entrato tra i miei preferiti, questo ultimo, magnifico film di Clint Eastwood, uomo bellissimo e gran regista, di rigore e asciuttezza esemplare, senza ombra di retorica. In primis perché, con coraggio e senza sbavature, tocca un tema che, per la società occidentale, è tra i massimi tabù. Anzi, è IL tabù. Ne parla con forte semplicità, raccontando tre storie, tre luoghi, tre drammi diversi: Marie (Cécile De France), giornalista parigina bella e di successo, sopravvissuta allo tsunami del 2004 dopo un'esperienza di pre-morte; Marcus (Frankie McLaren), adolescente londinese con madre tossica e alcolizzata che, dopo aver perso l'amatissimo gemello in un incidente, cerca di entrare in contatto con lui; George (Matt Damon), operaio di San Francisco con il dono, o per dirla con le sue parole, la condanna, di comunicare con l'aldilà, attività su cui aveva anche lucrato, ma della quale non vorrebbe più sapere nulla.
Ovviamente queste tre storie sono destinate a incrociarsi, in un modo imprevedibile e bellissimo che lascio scoprire a chi vorrà andare al cinema. 
Nel mezzo ci sono momenti di grande intensità e, più raramente, di opportuna leggerezza: la sconvolgente scena dello tsunami, per l'appunto; gli strazianti stratagemmi dei due gemelli per coprire la madre sbandata di fronte agli assistenti sociali; lo sguardo buono di Matt Damon, che mangia sempre da solo e ascolta Dickens per riuscire a sopravvivere; lo sguardo dolce di Marie di fronte a una scena di morte in una clinica; l'esplosione nella metro di Londra nel 2005, a cui Marcus scampa per miracolo; le lezioni di cucina italiana a cui Matt Damon prende parte e in cui conosce una ragazza con occhi e capelli bellissimi, destinata a essere una meteora nella sua malinconica vita.
Insomma: Hereafter, l'avrete capito, è stato una enorme occasione di festa.
Per prima cosa, la sala era stracolma, e per tutta la durata del film il silenzio era sacrale, di raccoglimento, intervallato da qualche singhiozzo qua e là, sospiri, e un simpaticone dietro di noi che se la ronfava della grossa (a caaaaaaaasa). E' stata una bella esperienza di condivisione, e al termine della proiezione ho visto solo facce sorridenti, e soddisfatte (tranne, immagino, quella dell'ignoto simpaticone).
Secondo poi. Se, sulla carta, l'argomento atterriva alcuni, abituati a rifuggire il pensiero stesso della morte perché troppo spaventoso, oppure solleticava altri alla sola idea dell'ennesimo film sull'aldilà, la bravura del regista è stata quella di condurli per mano, piano piano, a fare la pace con quel tabù, o ad affrontarlo senza superstizione o rigidi schematismi, a cambiare anche solo per un attimo la loro prospettiva, a fermarsi e condividere con lui quel dubbio: c'è davvero qualcosa, dopo?
La risposta ovviamente non c'è, ma è di per sé consolatorio il condividere questa domanda capitale. E c'è di più: Clint Eastwood è stato immenso nell'aver capito che il nodo non è nel dopo, ma nell'ora: la morte esiste, c'è, è la più inconfutabile delle nostre esperienze, ma la paura del distacco, della sofferenza, dell'abbandono non deve impedirci di vivere hic et nunc, con coraggio, responsabilità, consapevolezza. I suoi tre protagonisti, soli ad affrontare quel buio, ma ostinati, parlano soprattutto coi loro volti, tesi, intensi, increduli, stanchi. Li seguiamo, ne scrutiamo le espressioni, le ombre, l'umanità, è la pietas il grande sentimento che non possiamo evitare di provare quando li guardiamo. E desideriamo, e il regista con noi, che l'aver visto la morte così da vicino - subìta o vissuta non fa differenza qui -, aver percorso la via stretta, dia loro la possibilità di vivere una vita degna, in cui la morte non farà più paura. E, affrontata la madre di tutte le paure, le altre sembreranno fiocchi di neve candida pronti a sciogliersi al primo sole.
PS al solito, questa non è una recensione. Oppure, se vi va, potete chiamarla recensione emotiva.

mercoledì 12 gennaio 2011

Occasione di festa numero 54.


Qui c'è roba che scotta, direbbe la cara Donna Summer.


E infatti il disco di cui vi sto per parlare è una grande occasione di festa musicale che mi ha fatto fare la pace col rock, il pop, il soul, il funky, il musical, l'rnb, la dance e ogni altro genere musicale che vi possa venire in mente.
Il disco è di Janelle Monae e si intitola The Archandroid.
Roba strana, roba che scotta, tanta tantissima roba. Esattamente tutti i generi che vi ho elencato poco fa, rimescolati con classe, sicurezza, ambizione, intelligenza, infiniti riferimenti sonori e iconografici difficili da recuperare tutti se non grazie all'aiuto della stessa artista, una venticinquenne di Kansas City che, partita per New York col sogno di Broadway, a un certo punto si dedica completamente alla musica facendosi notare prima dagli OutKast e poi da Sean "Diddy" Combs (o come cribbio si chiama adesso), che la produce.
La copertina è un esplicito omaggio al film Metropolis di Fritz Lang, capostipite e capolavoro del genere fantascientifico, e l'album è in realtà un concept sulle peripezie di Cindi Mayweather, androide innamoratasi di un uomo che la società (siamo nel 2179) le impone di non frequentare, e figura messianica in grado di riportare un'umanità ormai in sfacelo alla salvezza.
La musica, così stratificata e opulenta, e le liriche bellissime e pregnanti formano un unicum così perfetto da pensare che un'artista simile abbia un ego smisurato, o che sia persino folle. Certamente si tratta di una profusione di talento, e siamo talmente abituati alla mediocrità o al sensazionalismo che, quando ci troviamo di fronte al coraggio, all'ambizione di dire qualcosa e di farlo nel modo più compiuto e artisticamente intelligente ci sembra che ci sia sotto qualcosa, o peggio ancora che sia costruito a tavolino.
E invece è solo questione di visione, è questione di costruire un progetto artistico prima ancora che musicale che si serva degli stili e delle forme d'espressione più consone a rappresentarlo. Poi c'è tutto un contorno iperglamour che non guasta mai, a partire dalla già citata copertina per non parlare degli outfit: Janelle, il bel viso regolare, è sempre impeccabile nei suoi tuxedo androgini e nell'ironico ciuffo rockabilly - quasi una divisa la sua, un'immagine iconografica che l'ha identificata fin dalle prime, sbalorditive performance. E infatti proprio nelle performance emerge la sincerità del progetto, la marcia in più di questa artista o dovrei dire, appunto, performer. Talento, carisma, canzoni: c'è tutto. 
Canzoni che ci portano su un ottovolante: dalla ouverture classica che introduce il ritmo cupo di Dance or Die (in nome omen) a Faster, dall'irresistibile chitarrina funky; passando per l'ariosità pop-disco di Locked inside, la sognante atmosfera à la Doors di Sir Greendown, l'indiavolata Tightrope (provateci voi a star fermi...), la commovente Oh, Maker, la quasi hardcore Come Alive fino alla morbosa psichedelia di Mushroom & Roses che chiude significativamente la prima suite ricordandoci il miglior Prince.
La seconda suite, meno esplosiva della prima e anch'essa introdotta da un'elegante ouverture, inizia incantando con la dolcezza di Neon Valley Street, per spiazzare con un altro aperto omaggio a Prince, il folle funky di Make the Bus, e con l'acida  filastrocca Wondaland, forse i pezzi meno riusciti dell'album, e poi ricondurci a più miti sonorità con la sospesa e quasi celestiale suggestione di 57821, con lo chicchissimo soul di Say You'll Go e la conclusiva, lunghissima BabopbyeYa, un sogno jazzy, fumoso e suadente, che ammicca alle migliori soundtracks di 007 impreziosite però da cambi di registro, arrangiamenti perfetti e charme interpretativo.
Un continuo fluttuare tra estremi, impensabili da accostare altrove e da chiunque altro, ma non da questa giovanissima ma già grande artista, che con lucidità ed equilibrio ci insegna che, a credere fino in fondo alla propria visione senza paure, non si sbaglia.
PS: e lasciatemelo dire... Finalmente una cantante con dei vestiti addosso!

lunedì 10 gennaio 2011

Occasione di festa numero 53.

Eccomi qui con la prima occasione di festa del nuovo anno. Un anno iniziato con i numeri 1-1-11 mi dice già che qualcosa di speciale può accadere. Per quanto mi riguarda, che quella ruota ferma da tre anni ricominci a girare, spinta da una nuova inarrestabile forza.
E' difficile da spiegare, questa sensazione. E' come l'onda di uno tsunami che sale, sale, sale, lentamente ma senza trovare ostacoli sul suo cammino. Negli ultimi anni lo scoraggiamento tendeva a prendere il sopravvento, ma è da un po' di tempo che sento che qualcosa è cambiato. Di fronte a me non c'è più quella montagna gigantesca, ma una collina, e sento che le forze stanno tornando per aiutarmi a conquistarla.
Le vacanze natalizie hanno portato bellissime novità, la gioia di stare con le persone amate, l'esperienza della condivisione e del confronto, esattamente come desideravo che accadesse.
Mi sono sentita circondata di un amore immenso, mi sono sentita la persona davvero più ricca e fortunata del mondo. 
Forse proprio per questo, fin da ieri sera, disfando l'alberello e tutte le decorazioni natalizie della mia Casetta, ho sentito una lieve malinconia.
Se infatti, da una parte, sapevo che oggi sarebbe stato il ritorno alla routine, il ritorno alla buca delle lettere piena di volantini inutili e spese indesiderate e a quella della email tristemente vuota di messaggi desiderati, allo stesso tempo percepivo che la paura non era più così paralizzante, che ce la potevo fare di nuovo. Nessuna circostanza esterna ha determinato questo coraggio: tutto è avvenuto naturalmente dentro di me.
Sapete, una cosa che ho capito, e che ho amato del passato 2010, è stato scoprire che finalmente potevo comunicare agli altri me stessa, con sincera spontaneità. Finalmente sentivo uscire la mia voce, sentivo che stavo esprimendo ciò che realmente volevo esprimere, grazie soprattutto alla scrittura, e a questo prezioso blogghino.
Durante l'adolescenza, e fino a poco tempo fa, il disperato bisogno di farmi accettare ha messo a tacere le mie vere esigenze e la mia personalità. Ero profondamente insoddisfatta e infelice, e mi sono accorta che quasi nessuno mi conosceva davvero. Ultimamente, invece, mi riconosco nello sguardo degli altri, mi piace il modo in cui mi vedono. "Ecco, finalmente sono io".
Sii te stesso, si dice sempre. Forse senza realmente capire la difficoltà di un tale impegno. L'aver scoperto che posso farcela, che posso far sentire la mia voce e comunicare le mie emozioni nel modo che voglio io è per me motivo di orgoglio, nonché l'ideale inizio di un anno che voglio sia finalmente quello della svolta. Ma non perché succederà necessariamente qualcosa di straordinario al di fuori
Perché finalmente affronterò i miei demoni uno alla volta, e questa volta sento di potercela fare.
Che il 2011 di tutti noi sia meraviglioso!