E infatti il disco di cui vi sto per parlare è una grande occasione di festa musicale che mi ha fatto fare la pace col rock, il pop, il soul, il funky, il musical, l'rnb, la dance e ogni altro genere musicale che vi possa venire in mente.
Il disco è di Janelle Monae e si intitola The Archandroid.
Roba strana, roba che scotta, tanta tantissima roba. Esattamente tutti i generi che vi ho elencato poco fa, rimescolati con classe, sicurezza, ambizione, intelligenza, infiniti riferimenti sonori e iconografici difficili da recuperare tutti se non grazie all'aiuto della stessa artista, una venticinquenne di Kansas City che, partita per New York col sogno di Broadway, a un certo punto si dedica completamente alla musica facendosi notare prima dagli OutKast e poi da Sean "Diddy" Combs (o come cribbio si chiama adesso), che la produce.
La copertina è un esplicito omaggio al film Metropolis di Fritz Lang, capostipite e capolavoro del genere fantascientifico, e l'album è in realtà un concept sulle peripezie di Cindi Mayweather, androide innamoratasi di un uomo che la società (siamo nel 2179) le impone di non frequentare, e figura messianica in grado di riportare un'umanità ormai in sfacelo alla salvezza.
La musica, così stratificata e opulenta, e le liriche bellissime e pregnanti formano un unicum così perfetto da pensare che un'artista simile abbia un ego smisurato, o che sia persino folle. Certamente si tratta di una profusione di talento, e siamo talmente abituati alla mediocrità o al sensazionalismo che, quando ci troviamo di fronte al coraggio, all'ambizione di dire qualcosa e di farlo nel modo più compiuto e artisticamente intelligente ci sembra che ci sia sotto qualcosa, o peggio ancora che sia costruito a tavolino.
E invece è solo questione di visione, è questione di costruire un progetto artistico prima ancora che musicale che si serva degli stili e delle forme d'espressione più consone a rappresentarlo. Poi c'è tutto un contorno iperglamour che non guasta mai, a partire dalla già citata copertina per non parlare degli outfit: Janelle, il bel viso regolare, è sempre impeccabile nei suoi tuxedo androgini e nell'ironico ciuffo rockabilly - quasi una divisa la sua, un'immagine iconografica che l'ha identificata fin dalle prime, sbalorditive performance. E infatti proprio nelle performance emerge la sincerità del progetto, la marcia in più di questa artista o dovrei dire, appunto, performer. Talento, carisma, canzoni: c'è tutto.
Canzoni che ci portano su un ottovolante: dalla ouverture classica che introduce il ritmo cupo di Dance or Die (in nome omen) a Faster, dall'irresistibile chitarrina funky; passando per l'ariosità pop-disco di Locked inside, la sognante atmosfera à la Doors di Sir Greendown, l'indiavolata Tightrope (provateci voi a star fermi...), la commovente Oh, Maker, la quasi hardcore Come Alive fino alla morbosa psichedelia di Mushroom & Roses che chiude significativamente la prima suite ricordandoci il miglior Prince.
La seconda suite, meno esplosiva della prima e anch'essa introdotta da un'elegante ouverture, inizia incantando con la dolcezza di Neon Valley Street, per spiazzare con un altro aperto omaggio a Prince, il folle funky di Make the Bus, e con l'acida filastrocca Wondaland, forse i pezzi meno riusciti dell'album, e poi ricondurci a più miti sonorità con la sospesa e quasi celestiale suggestione di 57821, con lo chicchissimo soul di Say You'll Go e la conclusiva, lunghissima BabopbyeYa, un sogno jazzy, fumoso e suadente, che ammicca alle migliori soundtracks di 007 impreziosite però da cambi di registro, arrangiamenti perfetti e charme interpretativo.
Un continuo fluttuare tra estremi, impensabili da accostare altrove e da chiunque altro, ma non da questa giovanissima ma già grande artista, che con lucidità ed equilibrio ci insegna che, a credere fino in fondo alla propria visione senza paure, non si sbaglia.
PS: e lasciatemelo dire... Finalmente una cantante con dei vestiti addosso!
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