Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

venerdì 16 dicembre 2011

Occasione di festa numero 123.

Parlare di sogni e di fiducia in se stessi non è facile, in questo 2011 di tensioni, insicurezze e cambiamenti epocali. Bisogna avere molto coraggio. Ma per aspera sic itur ad astraVoi che leggete questo blogghino lo sapete: è difficile, ma necessario e soprattutto possibile. Il bello c'è, va inseguito, snidato, agguantato. Io lo cerco spesso nella musica e tante volte, qui, ho parlato di artisti che sfidano il limite, che portano avanti un'idea di musica coerente e diversa dalle altre, che non hanno paura di puntare in alto. Spesso sono artisti che vanno cercati e portati alla luce, altre volte, quando si è più fortunati, hanno già grande successo ma sanno rimettersi in discussione. Più i tempi si fanno duri, più l'arte - e la musica, nel nostro specifico - devono a mio avviso raccogliere la sfida e dimostrare di saper interpretare i tempi e di dare la forza propulsiva necessaria a reagire e a dare il meglio di sé.
Quando ci riescono, l'intrattenimento diventa Arte.
Ecco, questa lunga premessa serviva a introdurvi questo meraviglioso disco pop di cui vi parlo oggi: Hurry Up, We're Dreaming degli M83, sigla dietro la quale si nasconde il musicista francese Anthony Gonzalez.
M83 è il nome di una galassia, e l'immaginario fantascientifico-astronomico-onirico è alla base della poetica di questa one-man band: un invito alla fuga spazio-temporale, nonché mentale? Tutt'altro. Una spavalda sfida a se stessi, piuttosto, una corsa verso lo sprigionamento del proprio potenziale, un'esplosione di volontà e potenza. Hurry Up, We're Dreaming funziona magicamente perché, come dicevo all'inizio, in un'epoca buia e stravolta come la nostra ci dice una frase come "I'm the king of my own land" senza sembrare retorico o strafottente (alla Kanye West, per intenderci). E, fin dal titolo, ci chiama a raccolta: sbrigatevi, stiamo sognando - come a dire: non lasciamoci scappare questo momento imperdibile in cui si rivela pienamente il nostro io autentico, in cui siamo noi, al nostro meglio.
Il disco impegna, fisicamente ed emotivamente. Innanzitutto perché Gonzalez recupera un formato un po' demodé come il doppio album, curandone la parte fisica, packaging e artwork, in maniera impeccabile e graficamente sofisticata. Il musicista ha dichiarato di essersi ispirato scopertamente a due capolavori del genere, The Wall dei Pink Floyd e Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins, una scelta anacronistica e in qualche modo "politica" nell'epoca dello shuffle e dell'ascolto distratto: anche Hurry Up, We're Dreaming lancia una sfida all'ascoltatore, oggi più che mai, invitandolo all'ascolto completo dell'album, dalla prima all'ultima canzone, senza tralasciare nulla, senza invertire l'ordine della tracklist, servendosi possibilmente di un paio di cuffie di buona qualità per cogliere tutte le stratificazioni sonore e le caratteristiche fisiche dell'opera.
La sfida lanciata a se stesso e all'ascoltatore è vinta su tutta la linea. Perché l'album è perfetto, leggibile e ascoltabile da qualunque angolazione e in modo molto più facile di quanto sembri, e per un motivo semplicissimo: mira allo stomaco. 
Ricco di echi e riverberi, ovattato come nei sogni o plasticoso e scintillante come nei migliori anni Ottanta, il suono ricorda la soundtrack di un film che non esiste, un po' come il contemporaneo Rome di Danger Mouse & Daniele Luppi (altro disco adorabile, di cui parleremo in futuro): ma laddove là viene ricreato un sofisticatissimo e caldo suono rétro, qui ritroviamo una magica alchimia di suoni elettrici, sintetici e tradizionali in cui chitarre, sintetizzatori, effettini sonori e sontuosi arrangiamenti orchestrali convivono armoniosamente come se lo avessero sempre fatto. Qui non c'è minimalismo, anzi c'è tutta la migliore grandeur francese in chiave musicale, un vero e proprio viaggio che si intraprende con mente sgombra e cuore calmo per poi finire molto spesso a commuoversi, divertirsi, abbandonarsi, sognare.
Intro, che vanta la preziosa presenza della cantautrice russo-americana Zola Jesus, è un inizio che lascia senza fiato: agli strati sovrapposti del sintetizzatore e all'invito ripetuto da Gonzalez "carry on", si innesta la marziale e autorevole voce femminile che guida la cavalcata verso il sogno: un sogno che infatti esplode, letteralmente, nel finale, deflagrante eppure etereo, degno dei migliori Sigur Ros. Da qui in poi i brani che si susseguiranno saranno di tre tipi: le suite elettronico-orchestrali di grande impatto emotivo, in crescendo, su cui si innesta il cantato più evocativo che decifrabile di Gonzalez (IntroWaitSoon My FriendSplendorEchoes of MineOutro); i gioielli pop in forma-canzone tradizionale, cesellati su sonorità up-tempo tipicamente anni Ottanta (sintetizzatori a strati, bassi slappati, clap-clap, sassofoni, coretti e fischiettii, chitarre new-wave), che rappresentano il lato più muscolare dell'opera, quello facilmente ballabile (il capolavoro Midnight CityReunionClaudia LewisNew MapOk PalYear One, One UFOSteve McQueen); e infine i brani di raccordo, tutti sotto i tre minuti, che di fatto sono l'ossatura dell'album, ciò a cui tutto il resto si tiene, e non meri riempitivi. E' soprattutto a loro che viene affidata la suggestione cinematica dell'opera, la tessitura dell'atmosfera: Where the Boats GoTrain to PlutonThis Bright FlashWhen Will You Come HomeMy Tears Are Becoming a SeaAnother Wave From YouFountainsKlaus I Love You fin dai titoli evocano immagini sospese tra l'anelito alla fuga, la malinconia e il desiderio, rimanendo peraltro strumentali o quasi.
E poi c'è Raconte-Moi Une Histoire, una divertente anomalia che ipnotizza ascolto dopo ascolto. Non dico altro per non rovinare la sorpresa.
I riferimenti musicali sono molteplici, e ognuno può ritrovare in questo album suoni familiari: dai già citati Sigur Ros, con le loro progressioni e le percussioni esplosive, agli Smashing Pumpkins di Mellon Collie per quel gioco continuo tra forte e piano, ai Pink Floyd più atmosferici, fino ad arrivare a un magma anni Ottanta fatto di echi new-wave e plastic pop. Ciò che più conta è che tutto questo concorre a ricreare un unicum di musica ed emozioni molto forti, di fronte alle quali spesso la resa è l'unica reazione possibile. 
I climax sono tanti. La bellissima voce di Zola Jesus che tuona "we carry on, carry on / follow us, we are all one" in Intro; l'accorato proclama "the city is my church" di Midnight City; la forza di quel "nothing can hurt me today" in Steve McQueen; il sogno di una foresta fatta di ricordi evocato da una flebile, senile voce francese di donna (Echoes of Mine); e infine quell'urlo liberatorio, quella volontà di potenza riassunta tematicamente nelle parole, magnifiche, di Outro - "I'm the king of my own land / facing tempests of dust, I'll fight until the end / Creatures of my dreams raise up and dance with me! / Now and forever, I'm your king!", parole alle quali segue una tempesta di suoni che chiude con un fragore 74 minuti di grandissima musica.
Io, personalmente, ne avevo bisogno. E me ne accorgo quando mi ritrovo col nodo in gola, l'anima più leggera, e il tintinnio di una campana di consapevolezza nelle orecchie. 
Per me, insieme a 21 di Adele, il disco dell'anno.

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