Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

Mille occasioni di festa feat. Beyoncé

giovedì 3 febbraio 2011

Occasione di festa numero 61.

Ieri sera La7 ha trasmesso la prima televisiva di uno dei film italiani più importanti e significativi degli ultimi anni, Il Divo. Per questa grande occasione di festa cinematografica mi autocito, riportando una recensione emotiva dal mio blog precedente, Perfectly Delightful. Buona lettura.

Il Divo: una cupa storia rock'n'roll.

Ne Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov il personaggio di Pilato, protagonista del romanzo scritto dal Maestro, soffre di indicibili emicranie. Il senso di colpa per avere mandato a morte Yeshua Hanozri, il messia venuto a portare una nuova Parola, lo perseguita per tutta la vita, e anche dopo la morte, in un limbo di solitudine alleviato dalla sola compagnia del suo amato cane.
Ne Il Divo, ultima opera di Paolo Sorrentino, la prima immagine di Giulio Andreotti è grottesca e cupa: tanti piccoli aghi gli cingono il capo a mo' di aureola, ennesimo rimedio contro quel mal di testa che lo perseguita da quando Aldo Moro morì, segno tangibile di un senso di colpa perpetuo. 
Da qui inizia un film inaspettato e bellissimo, una biografia dal deciso piglio rock, che racconta la "spettacolare vita di Giulio Andreotti", come recita il sottotitolo, partendo con un attacco furibondo e violento, come nelle migliori rock song: la sequenza dei morti eccellenti dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Novanta, da Moro a Falcone, accompagnati dal teso sottofondo di Toop Toop dei Cassius e da efficaci didascalie tridimensionali rosso fuoco. Altro spaventoso momento rock, accompagnato dalla splendida Nux Vomica di The Veils, la scena dell'assassinio di Salvo Lima per mano mafiosa.
La storia parte così dall'ultimo, il settimo, mandato di Giulio Andreotti quale capo del governo (1991), per arrivare al 1993, l'anno del maxiprocesso per associazione mafiosa, passaggio cruciale dalla Prima alla Seconda Repubblica, che lo vede stanco, sofferente, in preda a insospettabili attacchi di ansia, eppure ancora così potente, cinico, resistente.
Poeticamente efficace la scelta di osservare il Divo Giulio nel momento più crepuscolare della sua vita, nel suo canto del cigno, testimone ancora una volta dei grandi eventi italiani eppure più fragile, vulnerabile, esposto.
Più umano. Non sono d'accordo con chi parla di un Andreotti marmoreo, cinico, freddo, impenetrabile e insensibile. Ciò è vero, ma non è del tutto vero.
Più che The rise and The fall, è infatti l'acme e il subitaneo declino ciò che più interessa Sorrentino, è il cruciale confronto col bilancio della propria vita che genera il dramma privato, la ferma convinzione che "E' inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene": e in questo le parole di Moro, terribili, accusatorie, un vero anatema, sono un po' il contrappunto, la coscienza di tutto il film, il confronto inevitabile e necessario che Andreotti con ogni mezzo aveva voluto evitare e che pure infesta la sua mente sottoforma di terribili emicranie.
Immagini memorabili: Andreotti con il capo trafitto dagli spilli, Andreotti che cammina per una struggente Roma notturna circondato da una poderosa scorta armata, Andreotti che pedala sulla ciclette, Andreotti imbacuccato e col colbacco sotto la neve, i telegatti ricevuti da Andreotti in fila ordinata sopra il camino, i vecchi elettori di Andreotti a fargli visita ogni domenica in cambio di aiuto - regali, giocattoli, denaro -, le vivaci e spregiudicate manovre della corrente andreottiana prima dell'elezione per il Presidente della Repubblica - bruscamente interrotte dall'attentato a Falcone -, il suicidio di Raul Gardini e il suo ritratto di Warhol macchiato di sangue, l'insensata corsa di Andreotti sul pavimento di casa in preda a un folle attacco d'ansia, e poi una delle più belle scene d'amore del nostro cinema: Andreotti e la moglie Livia che, ascoltando 
migliori anni della nostra vita di Renato Zero, si tengono per mano senza dire nulla, in un attimo denso, delicato, eloquente, misurato. 
Gli attori sono meravigliosi, perfetti, indimenticabili: partendo da Toni Servillo, mostruoso, e non solo per l'incredibile make-up di scena, circondato da Anna Bonaiuto e Piera Degli Esposti, rispettivamente la moglie Livia e la fidata segretaria signora Enea, a lui devote con amore rispetto e fermezza, accanto a Flavio Bucci nei panni del fedele braccio destro Franco Evangelisti ("Oggi quanto me fai penà, a volerte bene..."), e poi la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana, i "brutti ceffi" che lo attorniano per portarlo al Quirinale ("Gli alberi, per crescere, hanno bisogno del concime", dice Andreotti a chi gli fa notare che si sta circondando di cattive compagnie), una vera e propria band tra cui spiccano un eccezionale Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino) e Massimo Popolizio (Vittorio Sbardella), nei panni del terribile Squalo, figure borderline destinate a finire sotto il giudizio di Mani Pulite.
C'è il grottesco, c'è la tragedia privata, c'è la riflessione allegorica sul potere e sulle sue implicazioni, c'è l'intrattenimento, le frasi memorabili, c'è una colonna sonora quanto mai congrua e calzante, c'è persino un andamento da spy story, da intrigo politico, quando entrano in scena i pentiti di mafia: facce perfette, terribili, ritmo serrato, sceneggiatura infallibile, il tutto intessuto di comico e tragico equamente distribuiti.
Sorrentino sceglie non solo uno stile modernissimo e barocco, grottesco e teso, per raccontare questa storia spettacolare, ma sceglie di non giudicare, di mostrare semplicemente ciò che è stato, lasciando allo spettatore il godimento e il piacere di trarre le proprie conclusioni. Con un tocco di umanissima pietas nei confronti del suo protagonista, non solo nelle scene di affetto muto con la moglie, la segretaria e l'amico Franco, ma anche in quel terribile, liberatorio monologo-confessione che è una vera e propria apologia del potere di dostoevskijana memoria.

"Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava, io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa – ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della Tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della Sopravvivenza". Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch'io."

1 commento:

  1. Brava, in certi punti sei più incisiva di un critico cinematografico. Credo tu abbia centrato in pieno l'obiettivo che Paolo Sorrentino ci sottopone attraverso le immagini de "Il Divo"

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